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JIMMY SMITH (1925-2005): LONG LIVE THE B3 KING!


Davanti a un infaticabile fuoriclasse del “drawbar” che non ha mai deluso chi – come molti di noi – ha sempre venerato il sound vibrante e rotante dell’organo elettromagnetico, esclamiamo uniti: “Long Live The B3 King!”. Di fronte a un purosangue cresciuto sui tasti “waterfall” dell’Hammond B3 che non rifiutava di andare in tour neanche a 70 anni, nessuno fino a oggi si sarebbe fermato a pensare: “quanto tempo rimarrà ancora tra noi Mr. Jimmy Smith, il genio dell’organo jazz?” Tanta era la sua voglia di suonare, di continuare a percorrere in lungo e in largo, tra pedali e registri, i due manuali bianchi e neri dell’Hammond, che l’organista responsabile di un cambiamento epocale nella storia del jazz ai nostri occhi era diventato veramente immortale. Jimmy Smith invece lo scorso 8 febbraio ha chiuso per l’ultima volta la persianina in legno sui tasti del B3 ed è andato a schiacciare un lungo sonno, a 79 anni, lasciandoci in eredità un stile e un suono che, per secoli, rimarranno legati al suo nome e alle sue dita. Come in un vorticoso “rewind” di un vecchio registratore Ampex o Revox – simile a quelli che tra il 1956 e il 1963 ospitavano i master delle memorabili session di Jimmy Smith per la Blue Note, in compagnia di Kenny Burrell, Lou Donaldson e Stanley Turrentine – scorrono ora veloci i successi della sua carriera, gli aneddoti e soprattutto un fiume di ricordi legati al suono e al fraseggio di questo profeta assoluto dell’Hammond. Da ricordare con curiosità che Smith, nato a Norristown, Pensylvania, nel 1925, iniziò a masticare l’allora sconosciuta tecnica organistica jazz solo a 26 anni, nel 1951, compiendo un vero miracolo. In meno di 5 anni, da autodidatta completo, Smith riuscì infatti a sviluppare un modo completo per sfruttare tutte le potenzialità dell’Hammond, rendendolo strumento agile nel bebop come nel boogaloo. Le giornate passate nel fienile, con il diagramma dei pedali dell’organo disegnato sul muro e un vecchio B3 traslocato dalla vicina chiesa di campagna, ebbero un effetto dirompente sulle capacità improvvisative e sulle scelte timbriche di Jimmy Smith, che fin dai primi anni ’50 impose quello dell’ Hammond come uno dei suoni più “cool” in circolazione. E il bello è che oggi, a quasi 70 anni dall’invenzione di Mr. Lawrence Hammond, quello dell’organo elettromagnetico è ancora un suono estremamente “cool”, campionato e virtualizzato in tutte le salse, rigenerato in digitale ma tuttora esistente nella sua forma possente – quella del mobile in noce e/o ciliegio - e presente in ottime dosi in quasi tutti i generi musicali. Il merito di tutto ciò è stato soprattutto di Jimmy Smith, il primo – e l’unico, a suo modo – degli organisti a prestare la “voce” dell’Hammond anche in territori lontani dal modern jazz, come le colonne sonore – memorabile quella del film italo-britannico del 1966 Le Spie, con David Niven, scritta dal nostro Mario Nascimbene e suonata da Smith con la big band – o la dance da classifica – il suo assolo su “Bad” di Michael Jackson, benchè su un Hammond sintetizzato, è rimasto scolpito nella storia del pop degli anni ’80. Troppi, davvero troppi i nomi degli organisti entrati nell’orbita di Jimmy Smith, nel passato e nel presente. Un lunghissimo elenco adesso sarebbe inutile, limitiamoci agli “estremi” dello stile come Jack McDuff, Jimmy McGriff, Richard Groove Holmes, Shirley Scott, Larry Young, Lonnie Smith, Booker T.Jones, Brian Auger, John Medeski, James Taylor, Larry Goldings, Barbara Dennerlein e Joey De Francesco, con cui Jimmy Smith aveva appena finito di registrare un album alcune settimane prima della sua scomparsa. Ma soprattutto, per una volta, lasciamo che siano i ricordi diretti a parlare e la nostalgia a prendere il sopravvento. Chi scrive adesso ha ancora vivo nella memoria il primo incontro con Jimmy Smith, risalente alla fine degli anni ’80, quando l’organista venne invitato a DOC International (RAI) e registrò col suo quartetto un paio di set di assoluta bellezza, svelando – a un appassionato hammondista in erba quale era il sottoscritto - i trucchi e i segreti dell’apparentemente facile “Organ Grinder Swing”. E ancora l’ineccepibile e tiratissimo live set al Big Mama di Roma, negli stessi giorni. Per tutti gli anni ’90, benchè già sulla soglia dei 70 anni, Smith non ha sbagliato un disco, ribandendo la supremazia di tocco sull’Hammond e soprattutto il grande eclettismo nello stile. Un esempio per tutti: l’album Angel Eyes per la Verve (con, tra gli altri, l’amico e chitarrista Mark Whitfield), un capolavoro di ballate lentissime, dove l’organo diventa un’orchestra d’archi vellutata – ma solo nelle armonie, il sound è quello di sempre! – e si respira un’aria di grande raffinatezza, simile a quella dei dischi cubani di Charlie Haden o Ry Cooder. Insomma, Jimmy Smith, sia quando attacca “I Got My Mojo Working” che rilassato sul pedale d’espressione in “Stolen Moments”, è sempre stato il primo, unico e irripetibile profeta dell’organo eletromagnetico. A noi piace immaginarlo ancora in azione, magari anche soltanto in uno scatto fotografico, come quello utilizzato sulla copertina del libro “Beauty In The B” di Mark Vail: Jimmy in camicia da seta, di profilo, stende le lunghe mani sui manuali superiore e inferiore dell’Hammond, con la tipica smorfia sul viso – sotto quei baffi che gli regalarono il soprannome di “castorino” nella mai troppo ristretta cerchia di suoi ammiratori – che da sola rende l’idea del suono rauco, cool e funky prodotto dalla “bestia” in legno da oltre 100 chili. Dormi tranquillo Jimmy, ci penseremo noi a portare su Marte quel sound favoloso e la tua voce gloriosa.
All Hail The B3 King!

Francesco Gazzara


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