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In loving memory of Jim Capaldi & Traffic

Jim Capaldi
Capaldi, Reebop, Winwood

Nonostante che il benemerito marchio musicale dei Traffic sia da sempre stato collegato al talento compositivo di Stevie Winwood solo la presenza sul palco del batterista e co fondatore, nei primi mesi del 1967, Jim Capaldi poteva avvallarne la completa identità. La sua recente scomparsa cancella la possibilità di rivedere quel marchio in azione.

La storia traccia l’origine del gruppo nell’unione, nei primi mesi del, Stevie e Jim con il supertalentato sassofonista Chris Wood e l’ombroso chitarrista Dave Mason, autore di uno dei primi successi del gruppo, “Feeling Allright”, musicista sin da subito in rotta con Winwood in un rapporto di competizione che sarebbe rimasto tale fino alla recente elezione del gruppo alla Rock & Roll Hall of Fame, lo scorso Marzo a New York City, l’ultima volta che i Traffic sarebbero montati su uno stesso palcoscenico.

Capaldi, batterista solido, buon cantante, si seppe trovare subito un ruolo equidistante dai conflitti di Stevie e Dave e dall’introversione di Wood, un uomo che fin da presto iniziò a convivere con i propri fantasmi. Jim seppe rappresentare nei Traffic il contatto con la realtà, con quelle radici Rhythm & Blues che Winwood aveva da sempre condiviso. Buon carattere, gran bevitore e anima soul della formazione Capaldi, nonostante oscurato dall’enorme genio di Winwood, portò avanti negli anni settanta una parallela carriera solista caratterizzata da certi buoni picchi – come i primi due album solisti, “Oh, How we Danced” in cui spicca Paul Kossoff e il successivo, tutto americano, “Whale Meat Again” dedicato al piccolo chitarrista dei Free che era nel frattempo deceduto (entrambi su Island).

Quando nel 1994 i Traffic tornarono, partecipando anche a Woodstock ’94, lo fecero con una certa dignità; produssero un disco dove c’era ancora qualcosa da dire e molto da ascoltare, “Far From Home“, in cui fecero i conti con la prematura scomparsa di Wood che era la variabile impazzita (ma che faceva la differenza!) del trio. Dopo l’album si imbarcarono in una lunga tournee mondiale. Saggiamente non sostituirono Chris e a lui dedicarono l’album, in tour li accompagnò il multistrumentista Randal Bamlett (ex Sea Level e braccio destro di Winwood negli anni a venire); dignitosamente promossero la loro arte.

A quel punto, nei novanta, Stevie e Jim avevano una vita molto distante l’un dall’altro - Winwood viveva stabilmente a Nashville - ma il compositore principale del gruppo non fu mai così stolto da rinunciare a Capaldi e alla sua vicinanza musicale.
Le più recenti cronache musicali ci avevano indicato Jim in concerto –immediatamente dopo il clamore della Rock & Roll hall of fame – davanti a sole 40 persone in un club a nord dello stato di New York, proprio il giorno dopo la cerimonia, ancora capace di emozionarsi e di ricostruire per la sua bella voce il repertorio storico dei “suoi” Traffic.

La Band alla fine dei sessanta, dopo il primo scioglimento, l’avventura dei Blind Faith e la confusione che imperava, era data per spacciata se Guy Stevens, mente creativa alla Island record, non avesse convinto Stevie a tramutare un progetto di album solista in quello del rinato gruppo.
Nasce, allora, nella primavera 1970 “Mad Shadow” (titolo imposto dal ex dj e poi rifilato ai più inesperti Mott The Hoople) per diventare poi “John Barleycorn must die” (dal titolo della canzone portata in dote alle registrazioni da Chris Wood) album sublime di musica inglese originale, eco oggi di un attimo irripetibile e ricco di magia.

“John Barleycorn must die“ (Maggio 70) fu uno dei primi dischi a far ascoltare al pubblico mondiale la musica tradizionale delle isole britanniche (i Fairport e gli Steeleye Span erano solo prodotti di nicchia) come nel brano che dava il titolo all’album; eliminate dalle sequenze finali del nuovo disco “Great Balls of Fire“ di Jerry Lee Lewis, che Guy voleva a tutti i costi sul disco (alla fine Winwood eliminò oltre il brano anche lui…) e altre indecisioni, per Stevie, Jim e Chris nacque il “Mito” dei Traffic, nonostante che il gruppo avesse già sulle spalle 3 album fra il ’67 e il ’69 e la grande “Dear mr Fantasy“, un mito più grande di loro. Dal richiamo strumentale di “Glad” (la prima sigla di “Per Voi Giovani“, un po’ come il primo amore…) al rigore agro di “Freedom Rider”, due parole che per i giovani dei primi settanta avevano un significato lontano da quello di oggi tutto era perfetto in “John Barleycorn Must die“. Stevie, Jim e Chris non si ripeterono mai (a differenza della carriera solista di Winwood, fatta di pochi album di buona fattura, ma molto simili fra loro), il disco fu subito amatissimo ovunque al mondo e li immise subito nella categoria degli immortali.

Un abortito disco dal vivo nel 1970 (di cui potrebbe esistere il master e delle stampe su acetato) di cui esiste addirittura un numero di catalogo (ILPS 9142) venne accantonato per il frettoloso “welcome to the Canteen” in cui membri passati, presenti e futuri del gruppo si ritrovano e Dave Mason fa capolino. Ma è solo il risultato dell’eccitazione del momento e Winwood, Capaldi e Wood si chiudono in una stanza e fanno il punto della situazione. Per andare avanti – si dicono - ci vuole una forte presa di posizione e una rivoluzione di personale.

“Low Sparks of High heeled Boys“ (nov 71) è un album ancora oggi interessantissimo se pur di transizione in cui Capaldi cantava “Ligh Up or Leave Me Alone“ e dove le grandi idee non mancavano. Rick Grech (ex Blind Faith) e Jim Gordon (ex Derek & the Dominoes e Delaney & Bonnie) vennero aggiunti al nucleo originale. Era abbastanza chiaro che soprattutto Jim era alla ricerca di una musica meno mentale di quella di “John Barleycorn Must Die” (Guy Stevens li aveva rimessi insieme perché amico di pub di Jim, non di Stevie che già nel 1971 astemio se pur eroinomane…). Capaldi, su questi principi, calcando la mano, pretese nel nuovo gruppo anche la presenza del percussionista africano Reebop Kwaku Baah, che seppe dare al tutto un sapore roots e sporco.
In un bootleg della tournée americana immediatamente successiva alla pubblicazione del disco in questione ci imbattiamo in una band che gira veloce (cocaina ? perché no!) e un po’ esasperata ma con intensità e la coda di “Glad “ è pura ricerca sulle possibilità timbriche dell’organo hammond. Sarà in questa stessa tournée che i Traffici s’ imbatteranno nei prossimi collaboratori. Assodato che Grech e Gordon erano troppo indisciplinati e pericolosi a se stessi e agli altri e fatta conoscenza con la sezione ritmica di Aretha Franklin, quella dei Muscle Shoals Studio di Florence, Alabama, Capaldi propone a Winwood di acquisirli, a scapito del suo stesso posto di lavoro!. Questa fu un’idea sublime dai risultati inimmaginabili, a cui dovremo essere grati a Jim per sempre. Portare su disco una delle più potenti e sincronizzate sezioni ritmiche del mondo, Roger Hawkins e Roger Hood, rispettivamente batteria e basso, e portarsi dietro l’organista Barry Beckett e il chitarrista Jimmy Jonhson, lasciò spiazzati tutti i colleghi inglesi e aggiunse alla musica ancora altro, liberando ulteriormente la creatività di Stevie.
Nel Novembre 1972 questa formazione allargata approdò in Giamaica, forse primo gruppo rock a registrare un disco proprio sulla terra di Marley. Nasceva “Shoot out at the fantasy factory” (Febbraio 1973) un altro capolavoro di originalità con canzoni dedicate alle pietre sacre di Roll Right Stones e, per la seconda volta, la riconoscibile copertina esagonale.
Sarà questa la formazione che verrà in Italia nel Marzo 1973 per 4 date (Torino, Milano, Bologna e Roma) che appartengono alla storia dei concerti dal vivo in Italia nei settanta.

Nella bolgia generale del vecchio Palasport di Bologna, preceduti dai riuniti Spooky Tooth con Gary Wright e Mike Harrison, i Traffic si presentarono sul palco come un sogno che diventava realtà. La scena era poco edificante; sulle tavole ci vennero spinti praticamente di forza, un po’ alla spicciolata, da numerosi tecnici, che ci sembrarono rudi e cafoni : Wood barcollava, Winwood esangue si sedette al piano sembrando subito estraneo all’evento in corso. L’unico a tenere un minimo di rapporto con il pubblico fu proprio Jim Capaldi, che riuscì addirittura a fraternizzare con quelli seduti proprio sotto il palco, non essendoci transenne divisorie. Gli americani del gruppo si accesero per tutto il tempo dello show delle gran sigarette al mentolo (che impuzzolentirono tutte le prime file) e parlarono esclusivamente fra di loro, quasi a voler far capire che loro lì si trovavano solo per lavoro. Intanto, intorno al palco una giungla di persone evidentemente al seguito del gruppo dava una chiara idea all’ancora inesperto pubblico italiano di cosa fosse un vero rock & roll circus, ballando, fumando, bevendo da bottiglie di superalcolici e le ragazze dell’entourage ci parvero piuttosto belle e intoccabili, oltretutto giovanissime. Due grandi pullman così grandi che sembravano vagoni ferroviari, parcheggiati a ridosso dell’entrata artista non spensero mai i motori per tutta la sera. Durante l’esecuzione del primo pezzo Reebop andò giù sulle congas; svenuto, fu portato via a spalla da Wood e Roger Hood solo al termine del brano stesso. Winwood, di spalle non aveva visto niente. Capaldi sfoggiò le poche conoscenze di italiano che aveva per tutta la sera, nel tentativo di riempire i tempi morti, mentre Stevie, pur cantando come un angelo, continuò a sembrare assente e si infervorò solo sulla coda strumentale di "(Sometimes i feel so) Uninspired “, brano il cui titolo ci apparve per quella sera profetico e che interpretò imbracciando una fender stratocaster che, girava voce, sarebbe appartenuta a Jimi Hendrix. Nel caldo generale il chitarrista Jimmy Johnson, una specie di gigante buono dai capelli rossi a cesto, tutto vestito di bianco, si alternò fra il mixer e il palco in più occasioni, tra lo sbigottimento generale. Nessuno aveva capito chi fosse e lo avremmo scoperto solo molti anni dopo. Quando Winwood imbracciò la buona vecchia Gibson Firebird qualcuno capì che stava per eseguire l’ultimo brano del concerto, “Dear Mr. Fantasy“ e il palazzetto sembrò crollare.

Paragonando una brutta registrazione su cassetta di quella sera con l’album dal vivo “On The Road“ (Ottobre 1973) fu poi chiaro che i Traffic non avevano suonato né una nota in più né una nota in meno di quelle eseguite a Dusserdorf, data in cui venne registrato l’album, poche sere dopo Bologna e se ne deduce che il gruppo, pur in balia a immensi problemi, era partito per la tournée europea con una scaletta di sicurezza che permetteva ai nostri di non sbagliare. La gente lasciò infatti il Palasport felice e di quella serata si parlò per molto tempo.

Sarebbe passato più di un anno prima che i Traffic rientrassero in studio e registrassero un nuovo album. La tournée aveva inflitto un duro colpo alla salute di ognuno di loro; i musicisti americani la descrissero negli anni a venire come “a nightmare”. Musicalmente ci sentiamo di affermare che poche altre band si sarebbero potute permettere un line up così perfetto e completo. Ma era venuto il momento di cambiare ancora una volta.

Nel Giugno 1974 Winwood, Capaldi e Wood si ritrovano in studio per incidere ilseguito di “Shoot Out The Fantasy Factory”. Andati sono gli americani e così Reebop. I tre hanno però chiamato al loro fianco un nuovo elemento, il solidissimo bassista nero Rosko Gee, proveniente delle isole dell’arcipelago centroamericano, un musicista consolidatosi nei circuiti della musica da ballo britannica per esordire su disco con i Barabbas e farsi un nome come turnista suonando fra l’altro con talenti del calibro dei Can. E’ chiaro che il percorso dei Traffic s’ incrocia in maniera oramai costante con le fascinazioni soul e rhythm & blues. Da dopo “John Barleycorn Must Die“ i tre hanno sempre prediletto una contaminazione in questo senso e nel 1974 una scuola di brit rhythm & blues comincia a consolidarsi (Vinegar Joe, Robert Palmer, Kokomo, Average White Band). La voce di Stevie diventerà proprio in quel periodo il riferimento, per tutti gli interpreti inglesi, di come si possa cantare il rhythm & blues con originalità.

“When the eagle flies” (Settembre 1974) è il risultato di un lungo mese di lavoro. Un album che stupisce ancora per la varietà e per la sua intensità. Capaldi e Winwood scrivono i testi del disco prediligendo i toni riflessivi come in “memories of a rock & rolla” sugli alti e bassi di una rockstar in rovina, una soul ballad in chiave Traffic. Sarà però la collaborazione con Vivian Stanhall a marcare forte il disco. Stanshall, lunatico leader della Bonzo dog Dah band, un vaudeville act che ebbe una certa popolarità tra i sessanta e i settanta, aveva legato con i Traffic nel corso di una tournée nelle Midlands nel 1970 e da allora l’amicizia era rimasta stretta. Soggetto a crisi depressive intense Vivian era frequentemente soccorso e recuperato da Stevie. Proprio nella villa del leader dei Traffic, Stanshall compose il brano più completo della racolta, la visionaria “Dream Gerrard”, ispirata dal poeta francese del diciannovesimo secolo Gerard de Nerval che terminò la sua vita in manicomio. Il testo del brano ne descriveva poeticamente le stranezze e rappresentò una decisa impennata di scrittura rispetto alla più compiuta grafia rock di Capaldi e Winwood che, invece, nel brano che dà il titolo all’album s’ indagano sul futuro del mondo auspicando un ritorno alla natura e al maggior rispetto di esso.

L’album scalò le classifiche e ricevette ottime recensioni. I Traffic lo portarono in tour nel 1975 (toccando anche l’Italia, per due date). Sempre più chiara era la sensazione che il mondo dei tre era però a world apart. Da una parte la riservatezza di Winwood, dall’altra parte i fantasmi di Wood la sensazione che qualcosa potesse rompersi aleggiava nell’aria. “When The Eagle flies” rimase, infatti, l’ultimo album dei Traffic per i successivi venti anni. Chris Wood sarebbe scomparso nel frattempo nel 1983 senza concludere mai il suo album solista di cui esiste un acetato e di cui Wood portò un brano inedito nella tournee di "When The Eagle Flies".

Il pubblico italiano, come un po' tutti i fans del gruppo al mondo, sdoganata la reunion dei Traffic nel 1994, dava oramai per scontato che quel marchio non sarebbe mai più riapparso all’orizzonte. Mai dire mai. Nel corso della tournee del 2001 di Stevie Winwood, i due superstiti avrebbero calcato ancora lo stesso palco. In Italia questo accadde durante l’esibizione di Stevie Winwood a Pistoia Blues. Jim Capaldi fece ingresso sul palco inatteso e, per quelli che si trovarono lì quella sera, “John Barleycorn Must Die”, “Dear Mr Fantasy “, addirittura “Gimme Some Lovin’” dello Spencer Davis Group tornarono ad avere il magico imprimatur Traffic.

Adesso che la notizia della scomparsa di Jim Capaldi ci sconquassa non possiamo che soffermarci sulla legacy lasciata dai Traffic. Una formazione che si era evoluta, da veicolo per la creatività del diciottenne Stevie Winwood a marchio di fabbrica inconfondibile e non ricreabile facilmente. Tra il 1967 ed il 1969, negli album “Dear Mr. Fantasy“, “Traffic” e “Last Exit“, Stevie, Jim Capaldi, Chris Wood e Dave Mason avevano tornito un suono dalle dinamiche oniriche e fluttuanti ma che sapeva attanagliarti con le sue radici. Nel secondo corso della storia ciò che così bene li aveva caratterizzati li spinse subito nell’Olimpo della musica Rock. Dove restano, intatti, purissima gemma della creatività minimamente contaminata. Quello stesso olimpo dove ha fatto ingresso adesso anche Jim.

“We’ll meet again/ don’t know when/ don’t where/
but i ‘ll know/ we’ll meet again/ some sunny day “

Ernesto de Pascale. Firenze 29.1/05

Jim Capaldi
Wood, Hood, Reebop

Scaletta Traffic Live a Bologna, 31 marzo 1973

Shoot Out at the Fantasy Factory | Rock 'n' Roll Stew | Forty-Thousand Headmen | Roll Right Stones | Empty Pages | No Face No Name & No Number | Glad/Freedom Rider | Tragic Magic | Sometimes I Feel So Uninspired | Light Up or Leave Me Alone | Low Spark of High-Heeled Boys/ Dear mr Fantasy

Jim Capaldi
Gary Wright degli Spooky Tooth, gruppo spalla dei Traffic a Bologna

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