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Green man festival 2006 report

Green man festival 2006 report


Ci voleva una fragile cantautrice romana, Emma Tricca, emigrata a Londra qualche anno fa, per fa tornare il sole sull’ameno Breacon National Park, nel Galles, sede della quarta edizione del The Green Man Festival, a parere della stampa e del pubblico, il più importante festival musicale per adulti e menti aperte, le cui proposte eclettiche e fuori schema hanno raccolto i consensi di più di diecimila persone a sera.

Emma Tricca

Nato per volontà degli artisti locali Jo and Denny, del dj Andy Votel, di Greff Rhys di Super Furry Animals, del giovane eroe popolare King Creosote e sorretto dall’assessorato locale per il turismo, The Green Man Festival ha dovuto abbandonare la piccola Hay on Wye e il castello di Baskerville per una location più adatta e consona alle necessità di quanti vengono al festival per passare un weekend di musica a trecentosessanta gradi.
Gli organizzatori hanno individuato un posto da far invidia logisticamente a qualsiasi altro festival: la villa reale del duce del Galles, parco nazionale dal 1925, appunto, situato fra la A 40 che unisce Abergavenny a Brecon e la più piccola 4077, a 3 miglia dal grazioso villaggio di Crickhowell, con il fiume Gavenny a delimitare la vasta area del backstage. Un location, insomma con tutte le carte in regola per sopportare avversità e la permanenza di migliaia di tende, roulotte, camper, furgoni attrezzati a casa ambulante, viandanti e la imponente macchina organizzativa musicale e non. Le modulate colline del Galles hanno fatto il resto e come Pete Paphides ha sottolineato nella sua recensione per il quotidiano The Times “ bastava alzare gli occhi e guardarsi intorno per sopportare la stessa pioggia che in un qualunque altro festival avrebbe sciupato la festa”.
Di un festa si è trattato The Green Man Festival 2006: su tre palchi si sono esibiti 80 diversi artisti. Dall’atteso Jose Gonzales, top ten in Gran Bretagna, al minuscolo set di Martin Carr degli scozzesi Boo Ridley, il festival è stata un sequenza di sorprese.
Ciò che il festival doveva dimostrare è che il nuovo movimento folk e le sue derivazione di alternative, primitive, progressive, singing/songwriting, che tanto interesse sta suscitando non è il risultato di una azione incrociata della stampa specializzata come Mojo, Uncut, Words Record Collectors, Plan B, Buckfull of Brains ma una direttrice che sta realmente proponendo talenti di qua e di là dell’oceano.


Circulus

Ecco allora gli attesissimi Circulus presentarsi sul palco in tuniche medioevali e strumenti da museo a fianco di organi hammond e sintetizzatori e chitarre elettriche per un mix a metà strada fra il primo progressive britannico e il folk rock. Il gruppo, piacerà a chi ama i Jethro Tull, i Gentle Giant, i Fairport Convention (ma anche l’acid jazz) ha avuto il merito in soli due dischi di sintetizzare e individuare proposta e target. Dal vivo, veramente bravi, non suscitano l’acclamazione popolare perché il pubblico britannico ne ha viste davvero tante ma Michael Tyack, cantante,chitarrista e compositore principale della band è uno che da dieci anni professa questo progetto e vederlo realizzare in così poco tempo è per lui una bella rivincita. Al termine del loro variegato set nessuno era però pronto all’americano M Ward che ha riversato sul pubblico mansueto del venerdì pomeriggio la sua dose massiccia di cantautorato elettrico dai toni gospel e dagli accenti alla Bob Dylan circa Newport 1965. M Ward è stato elettrizzante, aggressivo, intenso, con anima. Il giovane è uno dei pochi al quale sia stato chiesto un bis; con un album in uscita c’è da attendersi un bel seguito al suo ultimo “Transistor Radio”.


M Ward

A sera tardi sotto la tenda Folkey Dokey (1200 posti) un oscuro quartetto della Bay Area, Skygreen leopard ha presentato un breve set dinamico ed acido allo stesso tempo. Il quartetto – in verità i due chitarristi Donovan Quinn e Glenn Donaldson – scrivono brani fragili con lontane reminescenze west coast. Affiorano là e qua i fantasmi di after Bathing at Baxter’s e Crown of Creation dei Jefferson Airplane, il primo Neil Young, certi Moby Grape, il tono sinuoso di Dino Valenti ma tutto accade in maniera naturale, quasi scomposta. Affascinanti, incidono per la Jagjaguwar.
Sabato bastava alzare gli occhi al cielo peer capire che ci saremmo dovuti coprire bene per resistere alle intemperie: 14 gradi, nuvole grosse sopra la nostra testa e, per fortuna, vento che andava e veniva fermando la pioggia.


Skygreen leopard

Molti i nomi da seguire con interesse che si sarebbero esibiti davanti a un pubblico così vasto nel giorno clou del festival: i Tunng sono stati straordinari, hanno tirato fuori dal vivo una comunicativa e una intensità che il loro nuovo album”comments of the iner chorus” non esprime in pieno. C’è di tutto dentro: dal cantautorato antico a quello più nuovo, dall’attitudine punk, alla sperimentazione mai fine a se stessa. Il pubblico li attendeva con impazienza e si parlava di loro fin dal giorno prima. Dal palco hanno trattato il pubblico amichevolmente comprendendo in pieno il senso del festival.


Tunng

Lo spettacolo del palco centrale di sabato era costruito come un crescendo. Dopo i Tunng è stata la volta di Micah P. Hinson, al suo esordio in un festival inglese. Non credete a quanti dicano che il texano abbia risolto i suoi problemi disfunzionali; poco in lui funziona, anzi una sola cosa: la sua arte. Dal vivo, a differenza che su disco è rabbioso alla massima potenza, mininale, immenso, euforico, deprimente un attimo dopo, pronto a strangolarti con un assalto all’arma bianca. Sono solo canzoni di vita vissuta per il 24enne cantautore elettrico - che si è fermato al festival per tutta la durata dello stesso seguendo molti show altrui – ma sono riportate con il tono mefistofelico di un Tom Waits in pieno rock trip. Impressionante.


Micah P. Hinson

Difficile fare meglio di Hinson per il giorno di sabato anche se al Folkey dokey stage c’erano almeno un paio di artisti attesissimi: James Yorkston, un nome di casa al The Green Man Festival, cantautore dai toni introspettivi e Kieran Hebden & Steve Reid, manipolatore di laptop il primo, batterista di free jazz il secondo, inaudito duo dai toni esplorativi con un buon disco su Domino records. Il pubblico ha seguito i due set che si susseguivano uno dietro l’altro senza soluzione di continuità con lo stesso interesse. Un altro piccolo grande miracolo del The Green Man Festival. Prima di far calare il sipario sulla musica (tassativamente alle 24, anche se ci trovavamo nel luogo più sperduto del Galles!), al the Green Man Cafe il chitarrista acustico americano Jack Rose ha suonato un silenzioso (sì, silenzioso, senza l’utilizzo dell’impianto) set di “confessional pagan tunes”, come le ha chiamate lui, che rimandavano dritti dritti a John Fahey, uno degli ispiratori del genere oggi chiamato primitive. Il pubblico si è calato fino in fondo nella richiesta di rose di avere “totale silenzio” e il finale della giornata di sabato ha avuto un tono elegiaco e rigoroso che ben si declinava con la quiete dopo la tempesta.

Domenica, terzo ed ultimo giorno del festival il tempo ha concesso una pausa e il sole è tornato a splendere sul parco nazionale del Galles.
Juana Molina, da Buenos Aires, ha dimostrato il suo talento e le sue moltissime idee. Il palco centrale di un festival non è il luogo più consono a lei e un tono dimesso non ha restituito le belle promesse di un album, “Son” recensito con toni entusiasti da tutti.

Juana Molina

Quel che piace della critica inglese, una critica musicale non immune ai peccati, è riuscire a distaccarsi con rispetto da ciò che non funziona, senza puntare il dito, senza accanimento (peraltro impossibile accanirsi con una ragazza così semplice come la Molina!), senza andare a verificare chi ci sta dietro e se si dovesse mai dar fastidio a qualcuno, senza cioè mai “trattare la stroncatura”. Non piace, si passa oltre. Non della stessa idea il pubblico che la ha salutata calorosamente, senza dubbio merito della sua dolcezza sul palco.
Archie Bronson Qutfit rappresentano invece il lato opposto della medaglia. Dal vivo sono fortissimi, una sorta di moderni bikers fritti dai troppi dischi. Quello che il disco non dice lo esprime bene il set dal vivo: duri, convinti, con una vena blues trasversale e l’adrenalina altissima, hanno fato esplodere i cervelli delle prime file (al renne man festival nelle prime file si sta sdraiati per terra, tanto per capire l’atmosfera).

Archie Bronson Qutfit

Coraggioso ma consapevole di ciò che lo attendeva è stato Bert Jansch a montare sul palco centrale dopo le note rovesciate dall’Archie Bronson Outfit. Jansch, così come e quanto la sera prima il suo socio di tanti anni ed avventure John Renbourn, ha riscosso il più sincero e accorato tributo per 40 anni dedicati alla musica folk e a reinventare il ruolo della chitarra e della folk song nel mondo della magmatico mondo del music business da solo, con l’amico John e con i Pentangle. Jansch, rispetto a Renbourn – che si esibiva alla tenda Folkey Dokey – è maggiormente in controllo, un po’ meno introverso, esprime maggiore rilassatezza e l’album in arrivo viene commentato da quanti lo hanno già ascoltato come il migliore della sua lunghissima carriera.


Bert Jansch

Alcuni dei migliori act del festival erano stati strategicamente posizionati la domenica.
Gli attesissimi Calexico con un set potente e mai noioso hanno suonato le canzoni del loro più recente album mostrando la direzione ancora più originale di queste ultimi stagioni. Il gruppo texano non hanno deluso le aspettative e si sono confermati una band ancora in crescita e con un potenziale presso il pubblico inglese altissimo, che potrebbe portarli a risultati inattesi. Loro, per nulla emozionati parevano controllare perfettamente un pubblico che li attendeva come uno degli eventi di un festival dove c’è parità e rispetto.


Melissa Nadler

Presso la tenda Folkey Dokey due erano gli artisti che il pubblico più ricercato e di gusti più sfaccettati attendeva: la bostoniana Melissa Nadler ha suonato con grazia e stile le sue canzoni tratte dai suoi due unici album e la nuova “Diamone heart” (pubblicata solo su singolo in vinile). La Nadler è una specie di Leonard Cohen al femminile: composta e delicata, vocalmente ineccepibile e tecnicamente in grado di reggere un set non ha fatto segreto di aver suonato l’intero set in stato di totale panico. Ciò non ha tolto niente alla musica, anzi ha aggiunto carattere alle sue canzoni dai toni dark in cui silenzi e pieni si alternano con buona originalità, riportando spesso la memoria alle canzoni antiche dell’appalachian folk.


Alisdair Roberts

La vera star della serata alla tenda Folkey Dokey era però lo scozzese Alisdair Roberts, un altro nome di casa al The Green Man festival. Dopo l’esibizione in gruppo lo scorso anno sul palco centrale che seguiva il successo di “No earthly man”, Alisdair si è presentato da solo, a poche settimane dal lancio del nuovo album su Drag City, “The Amber gatherers”, suonado le nuove canzoni senza troppe pretese. Un rispettoso silenzio d’attenzione è calato sulla sua esibizione. Roberts è stato bravo a rompere l’atmosfera spesso spettrale di brani che – se pur originali – ricordano in maniera incredibile la tradizione scozzese. Ha scambiato battute con il pubblica, ironizzato sul festival, su se stesso, sulla sua etichetta, perfino dedicato un brano a Dolly Parton ma non ha mai interrotto il fluire emotivo della musica.Alisdair Roberts è un talento immenso, lasciatelo dire con certezza!, ragionabile a Mike Heron della Incredibile String Band. Quando qualcuno nel gretto mondo della musica se ne accorgerà farà un grande affare con le canzoni di questo trentenne. Non è strano che un artista come lui – ascoltare per credere – incida per una etichetta americana? Eppure in Gran Bretagna grandi etichette di folk moderno ne esistono. Chi può spiegare il quesito?
Quando tutto questo ben di dio poteva sembrare finito, consci di non essere stati in grado di vedere alcuni set per interi (Adem, poche battute dei Silver Jews, Donovan che ha suonato i suoi successi ma dilungandosi in presentazioni assurde parlando con accento giamaicano Teddy Thompson non all’altezza del disco, 18th day of may buoni per il sole della domenica pomeriggio ma con tanta strada da fare ancora) e mentre il dj Andy Votel faceva il pieno con la sua dose massiccia di freak beat francese, turco e slavo e con i suoi rari vinili Vertigo, dalla tenda Folkey Dokey ci sono arrivate addosso le note dure, alternative, kraute, psichedeliche, rumorose e frantumate di Sunburn Hand of the Man, ensemble mutante di sciamani proveniente dal Massachussettes. Difficile dire cosa hanno suonato, il gruppo è uno di quegli ensemble davanti a cui il giornalista (finalmente!!!) si deve solo arrendere. Il merchandise aveva intanto finito i loro album disponibili (il gruppo ha pubblicato più di sessanta dischi in pochi anni e un singolo auto prodotto distribuito in duecento copie e reperibile da www.aquariusrecords.org faceva bella mostra di se fino a che qualcuno non ne ha comprato 25 copie in una volta sola).


Joe Boyd

Imprendibili nella loro follia Sunburn hand of the man non sono i Faust, né i Can, ma neanche i Blue Cheer. Sono molto più avanti e nel pomeriggio avevano sonorizzato un film muto nella tenda del cinema davanti agli occhi stupiti di pochi, a quelli rapiti del loro amico Jack Rose e a quelli attenti del produttore Joe Boyd che guardava e sorrideva. Secondo voi cosa e chi gli sarà venuto in mente a colui il quale è stato definito “il padre spirituale del the Green man festival“?

Calava così il sipario su una bellissima edizione, superiore per artisti e organizzazione, del the Green man festival.

Il comune denominatore dell’intera esperienza? un certo tono magico e intenso che ogni artista invitato propone nel suo set, un pubblico capace di condividere, scegliere, veramente interessato alla proposta, una voglia di essere se stessi e di non dipendere dalla discografia malata, pur convivendo con tanti piccoli produttori ed etichette il progetto del festival stesso
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Il the Green man festival esprime insomma la voglia di fare, di andare avanti nel nome della musica e della semplicità di realizzarla.

Una unica curiosità del recensore. Mi ha colpito che al festival non si esibiscano artisti che suonino il pianoforte. Ne esistono in questo genere? E se non ne esistono non pensate che il primo che riesca ad esprimersi, nel lessico prediletto dal festival, attraverso questo strumento riscuoterà un grandissimo interesse?

Attendiamo impazienti la prossima edizione per verificare!!!

Ernesto de Pascale
23.08/2006

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