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The Green Man festival 2007
Crickhowell, Wales National Park, 17-19 agosto


Per la sua quinta edizione il gallese The Green Man Festival ha sostenuto a stento quel principio di vivibilità su cui nacque nelle intenzioni dei due artisti locali residenti, Jo e Danny.
Uno dei migliori eventi per un pubblico misto di adulti con famiglia e giovani capeggiatori se da una parte ha retto bene i quindicimila partecipanti, ha fatto faticare a risolvere difficili situazioni logistiche creatisi per il maltempo, davvero inclemente fra venerdì e sabato.
Un pubblico rispettoso e molto consapevole ha però riequilibrato le sorti metereologiche.
Ne ha guadagnato la musica, bellissima come sempre, in parte acustica, in parte elettrica, soprattutto nuova.

Numerosissime le proposte al piccolo palco del cafè con l’emergente americana Alele Diane a fare da padrona, seguita da Diane Cluck e il grande John Pater (ex La’s e Cast) a presentare un album solo che ci è parso subito di ottimo livello, secondo gli stilemi delle canzoni pop a cui da sempre Powers ci ha abituato.

Ai nomi noti l’onore del parco centrale nel bel mezzo del parco nazionale del Galles, nato nel 1925 e abitato da una natura mista e incontaminata, trattata con attenzione da tutti.

Devandra Banhart ha presentato accompagnato dai Vetiver il nuovo disco, giocando a fare la star dei freaks ma con composizioni questa volta più a fuoco e profonde di quelle a cui ci ha da sempre abituato, Joanna Newson con il fidanzato, l’intensissimo Bill Callahan - una scoperta dal vivo - per la gioia di moltissimi ha suonato le sue magiche storie per arpa e chitarre, Robert Plant, danneggiato dal diluvio ha pigiato sodo per i vecchi e nuovi fans mandando tutti a casa (o in tenda) zuppi ma felici, il conclusivo Steven Malkmus che, nonostante i fans dello zoccolo duro, ha subìto la penalizzazione di essere stato l’ultimo artista del giorno finale, non ha fatto una piega e ha presentato un set non dissimile da quello dello scorso anno, con mille dinamiche e intensi momenti.

Un posto di rilievo sul palco centrale hanno avuto gli artisti gallesi: Eurochilds, applauditissimi, Gruff Rhys che non ha rispettato le aspettative del suo bel disco “CandyLion” e The Earlies, davvero cresciuti sia musicalmente che vocalmente, dai mille incastri e intrecci.

Il folk doom singer scozzese Alisdair Roberts, di casa al The Green Man Festival, ha raccolto un notevole successo personale presentando (e convincendo) il suo più recente e accessibile album, “No Maber Gathers”. Nella band, al basso, Gerad Love di Teenage Funclub.

Una calda ovazione ha anche raccolto Findley Brown, a soli sette mesi dal suo esordio già sul palco dei grandi. Merito del suo garbo e del suo stiloso cantautorato con un bel set rilassato che si è concluso fra la folla, cantando e celebrando Elvis Presley.

Ultima ma doverosa menzione per gli australiani Connan & the Mockasin, un folle trio sulla scia di Kevin Ayers e Cp Beefheart, arrivati da lontano senza contratto, tenda dacapeggio in spalla. Da tenere ben d’occhio!

Sotto la grande tenda Hokey Dokey hanno trovato casa gli emergenti di lusso che sono stati la grande scoperta per molti, tutti attesissimi perché suonare lì significa - secondo i linguaggi trasversali degli organizzatori, quuel qualcosa in più che fa la differenza.

Da Baltimore sono arrivati quasi alla chetichella Arboretum lasciando stupiti tutti con la loro perfetta congiunzione di passato, sludge, stoner, folk e psichedelia. I quattro, spesso dal vivo con Bonnie Prince Billy, in mezz’ora hanno convinto i presenti che affluivano ascoltando le note sferzanti e autorevoli della band e lasciato la tenda fra le ovazioni generali confermando la bellezza del loro secondo, ultimo album. Era l’ultima data in Europa e l’accoglienza avuta sul vecchio continente pare abbia spinto il gruppo a continuare la propria interessantissima strada, dopo gli insuccessi sul proprio territorio.

Da Brooklyn, My Brightest Diamond ha offerto una performance basata sulla tipica attitudine newyorchese, tutta muscoli e mente, angolare ma amalgamata dalla bellissima voce di Shana Warden, destinata, prima o poi se solo lo vorrà, al grande successo, ben più audaci che su disco, che hanno eseguito una magnifica versione di “It’s Over” di Roy Orbison.

Voices of the Seven Woods, già una leggenda locale con solo un album per letichetta Finders Keepers del dj Andy Votel, e alcuni Ep all’attivo, sono l’anima nera del folk pischedelico britannico. A metà fra Amon Duul II di “Carnival in Babylon” e la Third Ear Band, hanno concluso il set con un raga mantrico di grande effetto.


Ellis Island Sound, ensemble strumentale, nel continuare idealmente la strada della immensa Pengin Cafe Orchestra, aggiunge un convincente mix di sonorità a una idea che pare tornare prepotentemente a galla (per poi scoprire dal Sunday Times la reunion ufficiale della Penguin Cafe Orchestra sotto l’egida del figlio del compianto Simon Jeffes, prevista a Dicembre a Londra). Ellis Island Sound è piaciuta per il suo suono sospeso ma fatto d mille plettri e ottoni.

Non distanti da loro ma con tre vocalist North Sea Star Orchestra, progetto ambizioso della Thrill Jockey, dal potenziale evidente ma che deve ancora crescere, destinato a musei e auditorium piuttosto che a una tenda nel mezzo di un parte.

Dalla East Coast statunitense sono arrivati alla spicciolata - come abitudine del festival l’organizzazione spartana e informale, impera - Dead Meadow, un trio stoner di cui si sa poco e i cui tre album realizzati fino ad oggi (realizzato nel primo quinquennio del 2000) sono fra le maggiori rarità della nuova musica nu psycho folk statunitense). Il trio ha spinto pesantemente sul volume e su una miscela di suoni acidi e apocalittici. Elettricità allo stato puro che ha lasciato il segno.

Non meno psichedelici e meritevoli di una menzione particolari Six Organs of Admittance, progetto solista del californiano Ben Chasny, già membro di Comets On Fire e Howling Rain. Il geniale chitarrista sperimentatore, seguace di John Fahey, si è presentato sul palco accompagnato dalla ventenne Elisa Ambrogio, già chitarrista di The Magic Markers, una ragazzina che dietro l’aria strampalato ha mostrato una violenza e una voracità inattesa, avventandosi sulla sua Fender Mustang mentre Chasny ricamava con un vecchio Telecaster trame post folk e raga rock dalle venature blues. Una festa distorta in stile fuzz garage ha terminato quello che a detta di molti è stato il più bel set visto alla tenda hokey dokey, e, peraltro, fra i più attesi.

Grandissimi John Renbourn, a suo agio con il pubblico e con un set di vecchi blues di Reverend Gary Davies e Joseph Spence e qualche sperimentazione ardita che è passata attraverso una strana versione del classico di Davey Graham, “Angie”. renbourn, implicitamente, ha fatto capire a quanti ancora non lo avessero compreso che le basi di questo bel festival sono nella tradizione, nella semplicità, nella sperimentazione ma soprattutto nella voglia di stare insieme condividendo non la solita musica.

Ernesto de Pascale


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