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Tarbox Ramblers
A Fix Back East

(Rounder, IRD)



Massachussettess Avenue, il lungo viale che unisce il centro di Boston alla piazza in cui risiede la Harvard University a Cambridge è deserto. È una calda serata d’agosto, l’atmosfera è desolata. Il bar situato all’incrocio con una delle mille arterie che porta fuori città è vuoto, anche il barista è sulla porta a guardarsi intorno, a vedere se qualche passante abbia intenzione di fermarsi nel suo locale. Dentro un solo uomo, un ragazzone alto e grosso indaffarato a darsi un tono armeggiando a un vecchio microfono in un angolo semi oscuro del bar, una taverna tardo ottocentesca stretta e lunga. In quello che dovrebbe essere lo spazio per un concerto, o almeno di una esibizione, trovano posto oltre al vecchio microfono un amplificatore di legno intarsiato, pare un antico oggetto della Fullerton Music Instruments, la piccola azienda artigianale che nei cinquanta cambiò il nome in Fender. Appoggiata allo sgabello primeggia una chitarra più vecchia dell’amplificatore e del microfono messi insieme. Su una lavagnetta dietro il bancone è stata cancellata a mano nuda la scritta happy hour e sostituita con il nome di colui che si esibisce qui stasera: Michael Tarbox.
Nel 2001 assieme al suo gruppo, Tarbox Ramblers, Michael ha prodotto uno dei più bei dischi d’esordio che la etichetta Rounder, storico marchio della roots music americana con sede a Cambridge, cioè a pochi isolati da qui, abbia mai prodotto negli ultimi 30 anni. L’album mischiava l’amore per il blues rurale a quello per la old time music, al rispetto di Tarbox per formazioni come i Kaleidoscope a cui il suo gruppo assomiglia ancora molto, e il tutto trattato con eleganza e originalità compositiva.
Tutta Massachussettess Avenue è un pullulare di locali e qui siamo proprio a pochi isolati dalla sede della Università ma stasera, sarà che i corsi non sono ancora ripresi sarà che è martedì, non è proprio serata. Michael non è molto crucciato di come si sono messe le cose, forse solo un pò imbarazzato per me ma l’artista non ha fatto molta strada per arrivar qui, abita dietro l’angolo mi confesserà candidamente, ed è un loquace intrattenitore. Nel raccontarmi la storia del suo gruppo, un trio con tanti accompagnatori, mi ripete mille volte che il prossimo disco sarà prodotto da Jim Dickinson, la patriarcale icona della scena roots di Memphis, 40 anni di musica e business dietro le spalle e una tradizione che continua con i figli nei Mississippi All Star band, un gruppo oramai lanciatissimo nell’olimpo delle Jam Band. Comprendo che per Michael Tarbox trovare un produttore come Jim Dickinson voglia dire risparmiarsi tante spiegazioni con i suoi soci, con i discografici, che quel nome sia un serio imprimatur al suo lavoro di ricerca ed originalità dove, però, anche la più recente composizione del nostro suona, per fortuna o no, vecchia almeno di 50 anni. So anche per certo che alla Rounder si fanno pochi scrupoli a mandare la gente a casa dopo un solo disco, d’altronde per resistere da indipendenti non basta il successo di una Alison Krauss, esplosa con la colonna sonora di “Fratello dove sei “, e che per Tarbox e i suoi vagabondi il benservito era già pronto dopo il primo disco se l’Europa non avesse reagito con un certo interesse. Perciò la figura paterna di Dickinson per Michael è chiaramente un respiro di sollievo.
Quella sera ci salutammo augurandoci buona fortuna a vicenda con la promessa di risintonizzarsi sulle frequenze comuni alla pubblicazione del nuovo disco.
Non sono passati molti mesi da quell’incontro e “ A Fix Back East “ è oggi nei negozi per sottolineare lo stato di grazia dei Tarbox Ramblers e il buon lavoro del produttore di Memphis.
A differenza dell’album di esordio il nuovo lavoro è caratterizzato da una strumentazione prevalentemente elettrica. Niente si perde di quelle atmosfere un pò cupe e oscure da blues rurale che erano il pezzo forte del disco precedente ma, per usare un eufemismo, diciamo che a casa di Michael è finalmente arrivata la corrente. E la strategia produttiva di Dickinson è tutta basata sull’elettricità delle performance; elettricità nel senso più lato del termine: la sua presenza infiamma senza dubbio i musicisti - chi lo conosce lo descrive come uno dei più grandi affabulatori del rock & roll americano ! - ma aggiunge alla musica di Tarbox una componente ancora più acida di quella che il nostro non ci aveva trasmesso con il disco d’esordio. E’ insomma una scena più urbana quella che ci propone questo “ A Fix Back East “ e il gruppo a tratti ricorda da vicino il suono dei concittadini Morphine e la voce del compianto leader di quel gruppo, Mark Sandman, qua è là aleggia tra i brani del disco dei Ramblers e riappare fra le note tristi intonate da Michael. La produzione di Dickinson evidenzia certe similitudini con i Morphine – la cui formazione composta da basso slide a due corde(!!!), batteria e sax baritono ha poco a che vedere obbiettivamente con quella dei Tarbox che è composta di chitarra, contrabbasso, violino e percussioni – soprattutto quando tende a far sviluppare la musica verso le note e le frequenze basse. Questa scelta è storicamente una caratteristica che affossa qualsiasi pretesa di commerciabilità di un prodotto ma che lo rende immediatamente più originale. E quella della originalità, pur proseguendo la strada di una scrittura che tragga spunto dalla tradizionale, ci pare la caratteristica più importante a cui tenevano sia Michael Tarbox che Jim Dickinson . I due hanno mantenuto fede ai propri propositi e “ A Fix Back East” è un bel disco di spessore dove non ci sono brani che svettano sull’altro, anche se il brano che dà il titolo all’album è particolarmente toccante!, e che mostra la faccia di un gruppo in netta progressione creativa dove tutto scorre bene fino al bel finale downhome di “ashes to ashes”.

Ernesto de Pascale


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