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Crosby & Nash
Fillmore

Cortemaggiore (Piacenza), 5 Marzo 2005

Appena venuto a conoscenza del tour europeo di Crosby & Nash, prenotai i biglietti: era più o meno metà gennaio. Avevo da poco tempo acquistato il nuovo album doppio, prodotto eccellente soprattutto per il coraggio che i due hanno avuto di riproporre, ad oltre 60 anni, brani prettamente acustici ed atmosfere indimenticate, ma ormai introvabili nei prodotti musicali odierni.
Durante il viaggio da Firenze a Cortemaggiore con i miei compagni di serata (Ernesto de Pascale e Giulia Nuti) abbiamo ripercorso i tratti somatici di quella musica west coast che, come una camicia demodè anni ’70, oggi è quasi un pezzo da museo, ma si lascia sempre indossare, anche dopo 35 anni. C’è coda all’ingresso del locale che, per pura coincidenza, porta il nome Fillmore, storico teatro che ha ospitato tanti concerti (lo stesso 4 way street è in parte registrato al Fillmore East di New York). La coda è composta, anche se il pertugio attraverso il quale tutti debbono entrare potrebbe essere fonte di protesta. Faccio un salto indietro nel tempo e mi ricordo che nel 1982 ebbi paura. Stavo per entrare nello stadio dei Pini di Viareggio insieme ad altri 70.000 per vedere Neil Young e la demenza organizzativa aveva lasciato una apertura di non più di 3 metri per fare affluire il pubblico dentro al campo. Urla, spintoni e terrore di essere calpestati accompagnarono i venti metri di viale prima di poter respirare di nuovo aria salubre.
Le cose da allora non sono molto cambiate a livello organizzativo, ma gli allora venticinquenni hanno oggi quasi cinquanta anni e non sbraitano, ma preferiscono risparmiare le energie per dedicarle agli applausi: si sa perfettamente che non si rimarrà delusi.
Abbiamo guadagnato un posto accanto al mixer, dal quale si domina la sala con i circa 1.200 spettatori e si gode di un ottimo ascolto. “L’anno scorso ho portato mio figlio negli States e sono andato a Woodstock“ queste le parole di un mio vicino di concerto, parole che trasudano nostalgia ed anche un po’ di rassegnazione all’idea che quei tempi sono veramente passati. Sorrido alla tenerezza che quella affermazione mi trasmette. Poter dire ad un figlio “…quanto è successo qui nel 1969 non sarà mai tuo, ma appartiene alla storia di una musica fatta per parlare di noi agli altri, fatta per la passione di condividere noi con noi” è un po’ come dire “ho costruito questa casa; adesso se vuoi puoi abitarla e goderla, ma puoi solo immaginare gli sforzi che ho fatto”.

Inizia il concerto: palco suggestivo con chitarre e pedal sulla sinistra, Nash e Crosby al centro e Raymond a destra. Dietro al centro la batteria ed il basso. Military madness abbassata di un tono per esigenze vocali, ma la voce di Nash è ancora tagliente quando esclama No more war! Nash appare emozionato e tirato, come se il banco di prova del pubblico italiano fosse estremamente probante: Graham, rilassati, il pubblico ti ama e non devi temere nulla. Crosby è il vero trascinatore, impassibile sulla scena, ma incisivo e trascinante nelle espressioni.
E allora vai: Wooden ships, Southbound train, Delta, Guinnevere, The lee shore, Cathedral, Just a song before I go, e poi i pezzi del disco nuovo. E ancora Deja vu, Cut my hair, Critical mass, To the last whale. Basterebbe raddoppiare le corsie ed avremmo il capolavoro: chissà se mai riusciremo a rivederli insieme. Ma va più che bene anche così: C&N non sono CSN&Y, ma per certi versi sono anche di più. Quando il pubblico canta Teach your children senza sbagliare una nota si capisce bene che l’atmosfera è ricreata ugualmente. Due parole di Crosby sull’America di oggi sono sufficienti a ricordare quanto questo popolo abbia negli anni usato la musica per mandare messaggi anche irriverenti ai suoi timonieri; ricordate Nash che in 4 way street dedicava Chicago al sindaco Danley e Young con Ohio?
Non saremmo mai più andati via, ma i concerti, come i dischi, finiscono ed in particolare quelli in vinile vissuti si portano dietro graffi e ticchettii che ci ricordano quanto tempo abbiamo passato a radiografarne ogni singolo passaggio e ogni singola nota: questo è vero amore.
Già: se mai a 50 anni avrò un figlio, lo chiamerò Giacomo e vorrei portarlo al Madison Square Garden per parlargli di No Nukes. Cosa c’entra questo con Crosby e Nash? C’erano anche loro.

Paolo Giorgi

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