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Black Crowes - Warpaint
(Silver Arrow/Goodfellas)
www.blackcrowes.com


What’s Wrong With Black Crowes ?

Cosa c’è che non va con i Black Crowes, con i fratelli Chris e Rich Robison ? Ad ascoltare bene Warpaint si direbbe facilmente nulla! Se non che la critica - memore della attitudine testarda e burrascosa dei due fratelli - pare essersi accanita contro ciò che, erroneamente, considerano già sentito, scontato, contro un sanissimo rock che scorre via giù come wiskey appena uscito dalle botti di due sani artigiani del Sud.
Il problema - se di problema si può parlare - è che The Black Crowes sono fra i pochi che sanno davvero come si compone, come si suona e come si veste un brano di rock, tanto più se classico, tanto più se classico e contemporaneo. Questo, evidentemente, a qualcuno non va giù. Il motivo? Perché oggi vale la logica del nuovo a tutti i costi, del giovanilismo senza freno perché è facile gridare al miracolo con dei ventenni che sanno il fatto loro mentre è più difficile farlo quando l’ingrato (perché di ingrato oggi si tratta!) compito di tenere alto il vessillo del sano e battagliero rock della cosiddetta Golden Age of Rock & Roll è affidata a un gruppo di quarantenni sfasciati, un po’ orgogliosi, un po’ presuntuosi, molto red neck ( “chi è il redneck?”, si chiederà qualcuno ? “Forse il catto comunista del rock?”, risponderà a voi questo recensore con tono interrogativo!) che ha stampato su ogni propria canzone l’imprimatur del genere immerso nell’onda sinusoidale del tempo che, passando, rende ogni canzone di Warpaint più bella, pastosa, più tornita, inquadrata in uno timeframe immortale.
Si ascolti Evergreen (il titolo dice tutto!), Locust Street, una bella ballata con il sole negli occhi, l’iniziale Goodbye Daughters of The Revolution, l’incipit di We Who See The Deep, misto di Can’t You hear me Knocking e Gimme Shelter, e più o meno tutte le canzoni di Warpaint per capire che contro questo album c’è stato un movimento di pensiero nato prima che un solo giornalista avesse potuto ascoltare una sola nota.
Meschinamente moltissimi giornalisti con fare bandwagonesque hanno così colto l’occasione per massacrare un gruppo che non si cura poi più di tanto di queste pochezze. D’altronde a quei giornalisti non sarebbe stato dato modo di massacrare un giovane tutelato da una grossa casa discografica mentre oggi The Black Crowes - beati loro! - sono finalmente liberi e indipendenti e qualcuno di loro si deve evidentemente liberare di qualche vecchio sassolino nella scarpa che i Robison avevano sapientemente piazzato.
I due Robinson, forse consapevoli a cosa andavano incontro, fanno invece cappotto alla grande e rispolverano anche lo sconosciuto rev. Charlie Jackson con la sua God ‘s Got It giusto per far capire cosa gira nei lettori e sui piatti del loro branco. Luther Dickison, in prestito dai Mississippi All Star, ha l’ingrato compito di non far rimpiangere Marc Ford che pochi mesi ci ha ben impressionato con un solo album di vaglia e ci pare integrato benissimo aggiungendo melma alla palude e zucchero al wiskey, si senta la coda di Movin‘ Down The Line.
Avrei volto dire quattro stelle ma visto il coraggio, dico cinque stelle alla salute dei perfidi colleghi e chapeau a The Black Crowes.
E, se non bastasse, alla faccia del tono revivalistico sono anche qui disposto a firmare uno scontatissima Long Live Rock & Roll. Quando ce vò ce vò!

Ernesto de Pascale

Black Crowes - Warpaint
di Jacopo Meille

The Robinson brothers write their ‘Exile On The Main Street’.

C’era una volta una band in cui militavano due fratelli: Chris e Rich Robinson, rispettivamente voce e chitarra. Suonavano rock’n’roll insieme al fido Steve Gorman alla batteria e a una manciata di chitarristi e bassisti che si sono alternati negli ultimi 15 anni lasciando invariata la matrice musicale della band. La critica li ha osannati e criticati, proprio come è accaduto per gli Ac/Dc perché “colpevoli” di sfornare album di semplice e sano rock’n’roll.

Rolling Stones, Led Zeppelin, Allman Brothers, i modelli sono rimasti invariati così com la capacità che i Black Crowes hanno di creare canzoni dirette e ariose come l’opener ‘Goodbye Daughters Of The Revolution’ e blues torridi come ‘Walk Beliver Walk’, così carichi di reminescenze seventies credibili e per nulla ruffiane. Per una citazione fin troppo evidente di ‘No Quarter’ in ‘Wee Who See The Deep’, c’è la dolcezza di ‘Oh Josephine’ che sa riscaldare il cuore come solo ‘Wild Horses’ ha saputo fare in passato.

Il rock è un’istituzione e i Black Crowes sono i portabandiera più “conservatori” di un genere che ha saputo invecchiare senza sputtanarsi troppo mantenendo, quando è suonato bene come in ‘War Paint’, una dignità e un valore storico grazie al suo linguaggio tanto semplice quanto difficile da proporre se non lo si ha radicato nell’anima, in profondità.
Jacopo Meille


Track List

Goodbye Daughters Of The Revolution
Walk Believer Walk
Oh Josephine
Evergreen
Wee Who See The Deep
Locust Street
Movin’ On Down The Line
Wounded Bird
God’s Got It
There’s Gold In The Hills
Whoa Mule

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