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Ray La Montagne
Hammersmith Apollo, Londra, 07 Febbraio 2007

Non vola una mosca tra i 3500 londinesi accorsi in processione semicartatica per il primo di due sold out dell’americano Ray La Montagne, a un artista che chiede solo di essere ascoltato prima di essere giudicato, all’Hammersmith Apollo di Londra, evento del mese nella capitale europea dell‘industria musicale. Il pubblico, non a caso, è quello delle grandi occasioni.
La Montagne dal vivo è quanto di più disarmante ti puoi aspettare: i quattro musicisti - chitarre e pedal, batteria suonata dal produttore Ethan Johns sulla falsariga di Levon Helm e bassista bionda - assecondano Ray sulla base del suo interpaly vocale/strumentale. Ray, dal canto suo, seduto chitarra acustica in pugno da un lato del palco, ha presentato in 90 minuti tutto quel che ha infilato nei suoi due unici album, segnalatisi per purezza e intensità, con rigore e passione.
Canzoni acustiche cantata da una voce che passa dal sussurro all’urlo in un accordo. Folk, rythm & blues, country alla George Jones e confessional songs si sono susseguite una dietro l’altra senza che l’artista del Maine spendesse niente più di un grazie; una atmosfera da understatement, che La Montagne si è conquistato con le unghie per interrompere il rumore circostante di tanti fenomeni con molto meno talento di lui, aleggia serena nel vittoriano teatro che pare stasera non più antico delle nuove canzoni di La Montagne.
Dal vivo, le atmosfere cameristiche dei due album sono sostituite da quelle più gestibili del piccolo gruppo che suona raccolto su un palco immenso, su cui è facile perdersi. Ma il carisma è un dono di natura in qualche modo e il cantautore lo esercita tutto e senza imposizioni di alcun tipo. La mancanza delle tastiere e del piano che nel secondo disco sono parti importanti di un piccolo e miracoloso puzzle non vengono a mancare e sottolineano di più la sua guida musicale con i musicisti che lo guadano e lo seguono da vicino, a volte ipnotizzati.
Dalle più celebri, “Trouble” suonata per terza dopo l’incipit di “Till the sun turns black” a fare da apertura in bella mostra - “Be Here Now” ed “Empty” - fino alla richiestissima “Jolene” attraverso il rythm & blues alla Muscle Shoals di “Three More Days” e “Gone Away from Me “ che riporta a gente come R.B. Greaves e Clarence Carter, il concerto è una celebrazione della semplice originalità di Ray La Montagne che sul palco appare ancora insicuro ma desideroso di fare bene. Un senso del dovere si tocca da qualche parte dei novanta minuti, come se lo spettacolo debba in qualche modo onorato, secondo lo stile dei vecchi cantanti di revue di una volta anche se qui di spettacolare non c’è nulla.
E quando alla fine dei quattro bis l’artista si lascia scappare un commento positivo sulla serata e sul pubblico il teatro pare venire giù dall’ultima fila della galleria alla prima di platea. Ray però si ritrae subito e taglia corto guadagnando l’uscita a testa bassa, prima con piccoli passi lenti, poi accelerando.
Qualcuno all’uscita dell’Hammersmith compara la timidezza dell’americano a quella di Nick Drake ma è passata troppa acqua sotto i ponti per poter pesare e misurare.Tutti, però, qui, questa sera, sono concordi a non volerlo vedere cambiare neanche un po’. Visto il successo ricevuto pensiamo che a Ray La Montagne averne molto di più potrebbe costare caro. A lui, mi aveva confessato nel pomeriggio, può bastare anche così!. Adesso si tratta solo di non far svanire la magia, continuare bene così e don’t interrupt the sorrow.

Ernesto de Pascale

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