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2002: i sussulti sempre più nascosti della musica nera.

Si sente spesso dire, e da tanto, che la musica nera tradizionale stia attraversando una forte crisi. Secondo questa teoria sia il jazz, secondo molti incapace di riprodurre le onde sismiche di una volta, che il soul, apparentemente caduto in una deriva prevedibile e commerciale che ha esaurito lo spazio per la fantasia, sembrano vivere in una sorta di limbo alienante nei confronti di qualsiasi innovazione o ricerca artistica.
Senza voler entrare nel merito specifico della questione, e certi che le generalizzazioni danneggino o esaltino espressioni che troppe volte non lo meritano, possiamo soltanto replicare che la musica di qualità è ormai un patrimonio sempre più ignorato dai grandi veicoli comunicativi, e per questo deve essere cercata con più attenzione e dedizione di quanto non fosse necessario in passato.
A conferma di ciò vi presentiamo i nuovi lavori di quattro artisti che rendono pieno onore ad una tradizione che nel sottobosco ci sembra invero viva e rinnovata. Due di essi appartengono al presente più orientato verso il futuro, e due provengono da un glorioso passato che più volte ha cercato di prefigurare il presente, qui attualizzato da due LP di indubbio valore. Quattro artisti per quattro album apparentemente diversi, ma in realtà accomunati da una ricerca sonora raffinata, in alcuni casi illuminante.
Buon ascolto.

Joseph Malik – Diverse
Compost Records/Family Affair


Nonostante sia in giro da parecchi anni, come DJ, ma anche prestando la propria voce qua e là, Joseph Malik arriva soltanto adesso al debutto sulla lunga distanza.
Ascoltare i primi pezzi di Diverse - l’intensa Melodies, che riporta ai seminali esordi di Terry Callier, o la fumosità di Soul Blues - porta d’istinto a riprendere in mano il digipak, per controllare che la casa discografica sia davvero quella Compost che negli ultimi tempi ha ospitato la crema dell’elettronica europea. Tutto sommato non c’è da stupirsi, dato che le produzioni dell’etichetta tedesca hanno sempre badato alla sostanza e alla qualità dei pezzi, ed è quindi naturale che nel suo catalogo spuntino fuori progetti molto attenti verso la forma-canzone e la tradizione.
La voce di Malik è calda e sensuale, ma senza mai permettersi di scadere in quel facile sentimentalismo che attanaglia molta della musica nera di oggi, e su di lui il produttore David Donnelly costruisce trame sonore folk-soul attraversate da beat sottilissimi e discreti. Non sempre tutto riesce alla perfezione, Futuristica ad esempio sembra una produzione svogliata dei Jazzanova, ma in generale il livello si mantiere alto. Se questo sentito ritorno al soul può valere come possibile nuova direzione per la famigerata chill-out, non rimane che sperare bene per il futuro.

Wayne Shorter – Footprints Live!
Verve/Universal

Stranamente un gigante del jazz come Wayne Shorter non aveva mai pubblicato un disco dal vivo. Ci arriva oggi, e il risultato vale tutti gli anni di attesa, perché Footprints Live! è la bella cartolina di un tour che durante il 2001 ha regalato grandi momenti a tutti i fan del grande sassofonista americano.
A pensarci bene, un disco come questo sembra essere pubblicato per ricordare a tutto il pubblico jazz quanto grande sia stato il suo apporto compositivo. Musicalmente si tratta di un ritorno alle radici del jazz acustico, territorio che Shorter aveva smesso di esplorare più o meno dai tempi del leggendario In a Silent Way, e pezzi immensi come Juju, Footprints e Sanctuary vengono riproposti in versioni diverse dagli originali, ma altrettanto vibranti: se Shorter aveva qualche peccatuccio da farsi perdonare – leggi i suoi dischi della seconda metà degli ’80 – questo sembra senza dubbio il modo migliore per farlo.
Con lui sul palco c’è una band di primissimo livello (Danilo Perez al piano, John Patitucci al basso e Brian Blade alla batteria), formata da nomi che nel panorama jazz di oggi rappresentano vere e proprie scuole da imitare. Fra loro è l’inventiva ritmica di Blade a brillare maggiormente, infondendo un rinnovato vigore al fraseggio inconfondibile del sax tenore di Shorter.

Joe Zawinul – Faces & Places
ESC Records/IRD

Quasi contrappuntando il suo vecchio compagno di scorribande, anche Joe Zawinul esce con un nuovo cd. Faces & Places (sarà nei negozi il 16 di settembre) non è un ritorno significativo e importante come Footprints Live!, ma potrebbe altresì esserne un perfetto compagno d’acquisto, visto che ricerca e insegue direttive musicali piuttosto diverse.
Zawinul ha ormai settant’anni, non ha niente da dimostrare e può vantarsi di aver messo le mani su molteplici progetti che hanno poi ridisegnato le geometrie del jazz: il risultato di questa nuova prova è quindi un piccolo compendio di molti tratti che hanno caratterizzato l’ultima parte di carriera del pianista austriaco. Troviamo dunque le consuete contaminazioni world, campo in cui Zawinul a suo modo è stato un precursore solitario, e i groove che non a torto potrebbero essere considerati il suo vero amore. A tal proposito spicca il momento più alto del disco, il bel tributo a Cannonball Adderley che è The Spirit of Julian “C” Adderley, in cui è possibile intuire con chiarezza di che pasta sia fatta la band di supporto. In definitica Faces & Places è un ascolto piacevole, che soddisferà i molti fan di Zawinul, pur senza essere un album epocale. Sarebbe stato molto più incisivo senza un paio di episodi – in particolare la melliflua ballad Familiar To Me - che certo non giovano in termini di mood complessivo.


Nils Petter Molvaer – NP3
Sula/Universal

Da due ex colonne dei Weather Report, musicisti che hanno ampiamente contribuito ad immettere il jazz su nuove strade, a Nils Petter Molvaer, trombettista norvegese che si sta affermando come uno dei più audaci jazzisti in circolazione.
In NP3, suo terzo lavoro, Molvaer sceglie di rimanere sul terreno già percorso della contaminazione elettronica, sconfinando spesso dal jazz alle rarefazioni proprie della musica ambient. Chiaramente non un lavoro per puristi e classicisti, NP3 trova la sua strada come degno successore di dischi importanti e coraggiosi come Khmer e Solid Ether, due tra i primi dischi di jazz “suonato” che hanno avuto il coraggio di confrontarsi con le sonorità più moderne dell’ultimo decennio. Unica vera pecca è la scarsa inventiva di alcune basi (Frozen, Simply So, il drum’n’bass un po’ datato di Nebulizer), che sembrano fuoriuscite da produzioni risalenti a qualche anno fa. Forse riaffidare i pezzi nelle mani di gente che remixa di mestiere (ad esempio la Cinematic Orchestra, che a suo tempo ri-produsse un piccolo capolavoro come Vilderness) sarebbe stata la via migliore per consegnare questo album agli annali d’inizio decennio. Rimane comunque un ascolto di ottimo valore.

Bernardo Cioci

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