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U2 – How to Dismantle an Atomic Bomb
(Universal)
www.u2.com




Che gli U2 siano un gruppo “ingombrante” è fuori di dubbio, a tal punto che ogni loro uscita monta lentamente fino a diventare evento mediatico. Fra pezzi trafugati e messi online (ebbero la malasorte di inaugurare la pratica, era il lontano ’96…), servizi televisivi e apparizioni di Bono con politici di turno, interviste in cui si dichiarano certi che il nuovo album sarà il migliore della loro storia, è sempre impossibile evitare il battage che sfila intorno alle gesta del gruppo rock più noto del pianeta. Senza contare i fan, devoti come in poche altre occasioni nella storia della musica pop, che smembrano e analizzano con perizia giornalistica ogni minimo sussurro fuoriuscito da Camp Bono. Tutto puntualmente avvenuto anche con How to Dismantle an Atomic Bomb, undicesimo album di studio del gruppo irlandese nonché progetto di cui si parla fin dal 2001. Le notizie strettamente musicali: torna Steve Lillywhite al mixer, insieme a Brian Eno e Daniel Lanois, un segnale forte riguardo alla direzione del disco. Con lui la produzione fa un ulteriore passo indietro e riporta il suono vicino a quello spazioso ed epico degli anni ’80, taglio sicuramente più netto rispetto ad All That You Can’t Leave Behind, con cui la band accantonò gli orrendi esperimenti dance-rock senza però gettare nel cestino la propria storia recente. Insomma, gli U2 chiamano a raccolta il pubblico che li ha abbandonati durante la seconda fase della loro carriera, quella dell’ironia, del postmodernismo, dei tour multimediali. Protagonista indiscusso di queste undici canzoni è The Edge, già a lungo accreditato come motore propulsivo di un album che toglie spazio a sintetizzatori ed elettronica per rimetterne in primo piano lo stile chitarristico fin da Vertigo, singolo che sta ottenendo un enorme successo nelle radio. Posto subito in apertura, è il pezzo che forse si trova meno a proprio agio con gli altri, sostenuto da un riff più potente del solito e da un Bono che scherza e fa un po’ il buffone, come se non volesse tornare subito nei suoi vecchi panni di predicatore rock. Seguono un paio di momenti abbastanza anonimi: sia Miracle Drug che Sometimes You Can’t Make It on Your Own potrebbero essere outtake di The Unforgettable Fire, e vengono tenute a galla solo dalla classe della voce che le canta. Love and Peace or Else è invece la prima vera sorpresa, un blues affilato che però non si amalgama del tutto col registro alto della voce di Bono, esperimento dunque non riuscito ma non necessariamente sgradevole. Seguono City of Blinding Lights, il pezzo più pop dell’album, un ritornello perfettamente cesellato dagli squilli della chitarra di The Edge, e All Because of You, la miglior canzone della raccolta, quella che riporta la mente alle ruvidezze di Boy e October, quando i nostri iniziavano la marcia verso la gloria. Dopo vent’anni qualcosa del genere è da considerare un surrogato, ma la qualità della scrittura è evidente e molti ne saranno estasiati. Purtroppo da qui in poi il gruppo sconfina nel generico: la malinconia autunnale di A Man and a Woman, gli arrangiamenti di archi in Origin of the Species, il ritorno alla fissazione soul (ricordate Rattle & Hum?) di One Step Closer, tutto svolto senza sbavature ma preda di un deja vu che ne uccide le velleità massimaliste. Negli anni ’80 gli U2 riuscivano a mitigare la propria pretenziosità grazie ad una visione illuminante, mentre con How to Dismantle an Atomic Bomb tutto si sublima in un semplice artigianato di classe, che non sarà un fallimento tout court, ma necessita di molta nostalgia in chi ascolta per essere amato. Arrivati alla sua fine non sappiamo niente di nuovo su Bono e soci, non certo la stessa sensazione che si provava dopo aver terminato The Joshua Tree.

Bernardo Cioci


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