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Bob Dylan
Milano 12 Novembre 2005 – Forum di Assago




“…Alle calcagna di Rimbaud muovendomi come un proiettile vagante per le strade segrete di una calda notte del New Jersey piena di veleno e stupore”. Così Bob Dylan scriveva nelle liner notes di Desire, lasciando intendere il suo spirito in continua tensione tra i contrari. Assistere ad un concerto di Bob Dylan è dunque, come scrissi qualche anno fa in occasione del tour italiano del 2003, è come assistere alla celebrazione del rito sacro del Rock ‘n’ Roll. Un rito mistico che nasce dal continuo scontro interiore di Dylan, anche in un momento di autorevisionismo storico come questo, segnato dalla pubblicazione del film-capolavoro No Direction Home. Dylan è imprevedibile sia in studio che sul palco e il concerto di Milano lo ha dimostrato a pieno, a partire dalla rinnovata line up della sua band in cui al posto del talentuoso Larry Campbell ci sono ben due musicisti, Danny Freeman alla chitarra e Don Herron, quest’ultimo nuovo perno della band e perfettamente a suo agio alla pedal steel quanto al violino e al banjo. Il resto della band vede ben saldo al posto di capobanda, il bassista Tony Garnier, il batterista George Receli e il secondo chitarrista Stu Kimball. Rispetto al tour europeo del 2004, il sound è molto più vicino al country pur non perdendo mai la potente matrice blues.



Ad aprire il concerto è un superclassico come Maggie’s Farm, eseguita con dalla band in una potentissima versione e cantata da Bob con grande grinta. Bob è in forma e lo si nota anche nel brano successivo, Lay Lady Lay, cantata in modo eccellente e applauditissima dal pubblico. Arriva poi un uno-due potentissimo con una tiratissima Watching The River Flow e Cold Irons Bound, quest’ultima tellurica e intensissima come non si sentiva da tempo. A condurre il gioco è senza dubbio la sezione ritmica in cui Tony Garnier detta i tempi alla grande mentre George Receli pesta duro invitando a nozze ora Stu Kimball ora Danny Freeman, che pur non abbandonando mai il suo elegante aplomb offre il meglio del suo stile chitarristico. A sorprendere arrivano poi una bellissima Mr. Tambourine Man, cantata da Bob con voce molto evocativa, Highway 61 Revisited in cui Freeman e Kimball duellano alla grande lungo tutto il brano e Boots Of Spanish Leather, quest’ultima caratterizzata da un ottimo lavoro di Don Herron al violino. Si ritorna al rock con Stuck Inside Of Mobile With The Memphis Blues Again, il brano gira benissimo fino ad un evidente errore di Freeman, Bob lo guarda, poi guarda Tony Garnier e alla fine scoppia in una risata tanto inattesa quanto ironica.



Ballad Of Hollis Brown, vede ancora protagonista Freeman di un altro evidente errore nell’uso del bottleneck, il pubblico non se ne accorge, Dylan nemmeno e il concerto continua senza problemi. La conferma tuttavia che Freeman non è male come possa sembrare ma che anzi è un ottimo elemento viene da Down Along The Cove quando insieme a Kimball si rende protagonista di un ottima prova chitarristica. Il mattatore però è sempre e solo Bob Dylan, anche se ormai se ne stà sulla sinistra del palco, seduto al suo piano elettrico. Un esempio ne è Just Like A Woman in cui ad ogni ritornello Bob incita il pubblico a fare i cori, e sul finale si lascia andare anche ad un “Well” di approvazione.



Il pubblico, conoscendo l’impenetrabilità del Dylan dei nostri tempi, esplode in un applauso lunghissimo così come accade ogni volta che si abbandona a lunghi assoli di armonica. Si riparte con una lenta Tweedle Dee & Tweedle Dum a cui segue Forever Young, eseguita per la prima volta in questo tour europeo, che questa sera suona incontrovertibilmente come un regalo per il sessantesimo compleanno del suo caro amico Neil Young. Summer Days fa scatenare il pubblico, purtroppo però il concerto è quasi alla fine.



Dylan lascia il palco per la classica pausa e vi fa ritorno pochi istanti dopo per eseguire I due bis finali, una splendida Don't Think Twice, It's All Right e il super classico All Along The Watchtower. Poi le luci si spengono, per riaccendersi con Bob che raggiunge il centro del palco con la sua classica camminata chapliniana; si ferma guarda i suoi fans e poi, rompendo gli equilibri teatrali del suo stile, comincia a mandare baci. A Bologna mi dicono che abbia ringraziato in francese e poi si sia messo a ridere.

Salvatore Esposito
Foto di Elio Gallotti

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