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13th Lucerne Blues Festival
(2-11 November 2007)



Lucerne offers, as usual, an outstanding Blues festival with a large choice of styles and a wise balance among new and old trends. This is a festivalyou can’t miss, made by fine connaisseurs who thinks first about the quality of the music and secondly to the financial viability. A remarkable difference from the past is the presence of a Swiss national – Philip Fankhauser - on the main stage. Don’t be mistaken: Philip is one of the best five Bluesmen in Europe and his show in Luzern was one of the highlights of the festival. Everybody went nuts for Big Pete Pearson and his terrific guys while Janiva Magness provided a first-rate performance imbibed of a massive portion of sensuality. Luckily enough, there was Willie Walker to bring a touch of romanticism with his sweet singing.

Come sempre un festival di grande qualità. Artisti noti e meno noti, d’orizzonti differenti ma sempre nell’ambito Blues. Cominciamo da coloro che hanno confermato il loro valore : la prestazione più notevole é, a parere di chi scrive, è stata quella di Big Pete Pearson, un cantante relativamente conosciuto ma già recensito su questo sito. BPP ha una voce che assomiglia a un rombo di tuono abbinata ad un timing bestiale, non esattamente un crooner dunque, ma un cantante di grande sostanza. Il gruppo che l’accompagna qui a Lucerna ha due punte di diamante in Bob Corritore all’armonica e Bob Margolin alla chitarra, ma anche il resto della compagnia, i Rhythm Room All Stars, offre un supporto di tutto rispetto. Produttore di una certa fama, Corritore è forse la sorpresa di questo festival, di grande presenza scenica – ogni tanto fa dei passettini che ricordano le maschere della commedia italiana – al suo esser armonicista raffinato mette insieme grande feeling. Margolin, un habitué di Lucerna, brilla come al solito alla slide. In questo contesto anche un repertorio con diversi classici, “Mannish Boy”, “Dust my broom”, “Tin Pan Alley”, ha dato frutti gustosi. Un altro che ha brillato intensamente è Philip Fankhauser; allevato da Johnny Copeland, come nessun altro in Europa ha assorbito certi suoni Texani e certe melodie, ai quali aggiunge un canto che ha fatto progressi incredibili. Ottima anche la sua band, effervescente ma senza esagerazioni.



In un tributo a Copeland, spunta fuori Sonny Rhodes, maestro della Lap Steel, una volta famoso per il suo turbante che decise d’abbandonare, in mezzo alla sorpresa generale, dopo le Twin Towers. Rhodes è un uomo anziano, ma la sua prestazione risulta vigorosa anche se ha lasciato a casa la Lap Steel e calza uno Stetson; suggestiva “Me and my guitar” con Fankhauser. Altra sorpresa è stata Janiva Magness, cantante conosciuta per la sua bellezza eguagliata dal talento. La Magness ha inciso diversi dischi di buona fattura, ma sempre un filino troppo puliti ; dal vivo invece è emerso gl’umori bollenti di una voce aggressiva, vellutata e sensuale secondo i momenti. Buona la band con un batterista notevole. Altro cantante di qualità, Willie Walker, scuola Goldwax-Checker anni 60, è atteso al varco dopo due CD che hanno destato l’attenzione della critica. Walker s’avvicina molto al Southern Soul, indi molto melodico con mid-tempo di grande tensione emotive suonati da una band swingante, The Butanes, di ottima fattura guidata da Curtis Obeda, chitarrista e songwriter di Walker. Due sempre in forma sono Paul Oscher e Billy Branch. Il primo, autore dell’unico spettacolo acustico del festival, si ripete sui suoi standards già elevatissimi. Bardato d’occhiali scuri e cappellino di lana – una tortura in una sala che sfiora i 40 gradi – non sfonda a livello di simpatia, ma regala scampoli di grandissima intensità come “Lowdown Blues”. Branch è un virtuoso dell’armonica che si fa preferire quando non deve agire come frontman, la sua band, The Sons of the Blues, gira comunque a mille – forse un filino troppo rumorosa per esser un gruppo di Blues, ma Branch lancia scampoli di grande classe. Altro grande tecnico è Mike Morgan, chitarrista texano di grana finissima, che con i Crawl guidati da Lee McBee fa un concerto basato principalmente su la sua chitarra. Il Blues di Zach Harmon è mainstream, ma godibile, inzuppato di classici, da “King Bee” a “Messin’ with the kid”, suonati con un massimo di feeling. Koko Taylor non ha bisogno di presentazioni: come Rhodes ha un’età veneranda, ma un carisma indiscutibile e il pubblico l’aspetta come i bambini aspettano Babbo Natale. Accanto gl’è stato messo una band dal sound rutilante – che mal si sposa con il suo ultimo CD – e la Taylor, smarrito il growl di 30 anni fa, se la cava con grande mestiere, spalleggiata verso la fine da Diunna Greenleaf e Janiva Magness in una “Sweet Home Chicago” un pò scontata. Ad evitare che la serata giri troppo sul mieloso, arriva al club, perchè il festival di Lucerna ha anche un angolo più intimo, Coco Montoya, uno dei più conosciuti guitar-axe. I suoi concerti, come quelli dei suoi consimili, promettono sangue, sudore e lacrime; snobbati dalla critica, radunano un pubblico assai eterogeneo, nel quale si decerne anche qualche giovane d’entrambi i sessi, cosa ormai rara nel Blues, almeno in Europa. Montoya e i suoi bravi non sono trucidi abbastanza, fornisce una versione troppo “politically correct” del Rock’n’Blues, ma soprattutto non sono wattati a sufficenza. Mancava all’appello Willie King e i suoi Liberators; Willie c’è mancato – i Liberators un pò meno - perchè musicisti come lui sono rari in quest’epoca quindi gli augiriamo di tornare presto in forma. Grazie all’Euro superdopato che ha messo in sofferenza anche il Franco svizzero, s’è visto finalmente, in più dei consueti aficionados, anche qualche spettatore Italiano.

Luca Lupoli


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