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Jeff Turmes - Five horses, four riders
Fat Head Records, 2010

Si è parlato poco nel nostro paese di questo disco. Ed è un peccato. Perchè Five horses, four riders è un gran bel disco. E’ uno di quei tesori nascosti che ogni tanto abbiamo la fortuna di scoprire. Qualcuno tra voi conoscerà già Jeff Turmes per il suo lavoro di produttore e musicista con Janiva Magness sua consorte e voce straordinaria del panorama blues contemporaneo. Altri avranno sicuramente apprezzato il suono della sua chitarra slide e del suo poderoso basso dietro alla voce di una delle più grandi figure gospel di tutti i tempi ovvero la grande Mavis Staples. Suo è il basso nel live Hope at the Hideout e nel bellissimo You are not alone. Lui è corresponsabile di una delle più originali architetture sonore che si possono ascoltare nella musica roots di oggi. E Jeff è inutile nasconderlo è un genio al pari degli altri suoi compagni di viaggio nell’avventura con la Staples il chitarrista Rick Holmstrom e il batterista Stephen Hodges ospiti anche in questo suo nuovo viaggio sonoro (il terzo da solista). Un musicista coi controfiocchi che si è fatto le ossa nella sua natia California al fianco di James Harman e Gary Primich per poi approdare alla corte di artisti di grandissimo livello. Turmes ha infatti suonato dal vivo e registrato con Tom Waits, Fabulous Thunderbirds, Norah Jones, Ronnie Earl, Billy Boy Arnold, Duke Robillard, James Cotton, Canned Heat, Pinetop Perkins, Koko Taylor, Richard Thompson, R.L. Burnside, Gatemouth Brown e Peter Case. E poi Jeff è uno di quelli che suona benissimo qualsiasi cosa: basso e contrabbasso, sax, chitarre di ogni tipo, clarinetto basso, banjo e tastiere. E questo disco ne è la riprova lampante. Le canzoni sono una più bella dell’altra! Non sto scherzando. Davvero in questo disco è difficile scegliere quale sia la canzone migliore. Forse il brano di apertura Something must of happened un blues scuro e waitsiano che farà la felicità di chi passa le notti ad ascoltare blues. Sembra proprio di sentire la band Mavis. Solo che qui siamo più dalla parte del diavolo. Beh d’altronde alla chitarra e alla batteria ci sono i già citati Holmstrom e Hodges. Quindi perché stupirsi? O forse la più bella è la seconda canzone Honey man in cui spiccano le voci della moglie Janiva e di Donny Gerrard, la batteria splendidamente suonata da Don Heffington e il sontuoso lavoro chitarristico di Jeff. No, no, ora che ascolto meglio, forse il brano che più mi ha colpito è Give Satan a chance (ve l’ho detto che eravamo dalle parti del diavolo) un blues sulfureo e paludoso con Ry Cooder nel sangue e un banjo pericolosamente bello perfettamente sostenuto dal basso acustico di Gregory Boaz. E che dire del cambio di registro che avviene con la traccia numero quattro, la titletrack? Turmes viene fuori con una ballad in stile folk inglese che sembra uscita da un disco dei Fairport Convention per colpire il nostro cuore dritto fino all’anima. Ormai Jeff mi ha catturato e non posso quindi che inchinarmi all’ascolto di Don’t the moon look real, swing blues raffinato ed essenziale ancora con Holmstrom e Hodges sugli scudi (che ditta!); di Turn your heart in my direction un blue eyed soul alla Delbert McClinton con il piano di Karen Hammak e una tromba divinamente suonata da Steve Huffsteter. Sembra di sentire i Neville Brothers quando anni or sono si facevano produrre da un altro genio: Daniel Lanois; e Weed like us che ha un testo da beautiful losers, un banjo di nuovo pericolosamente bello e un violoncello che commuove suonato da Tania Magidin. Il famoso Tom dalla voce roca sarebbe fiero di lui. C’è spazio anche per omaggiare il delta blues con Hew to the roadside in cui Turmes suona dobro e pattumiera (sì avete letto bene, ma sembra un washboard) mentre Steve Mugalian colora il tutto con i suoi tamburi; per poi tornare a bomba con il blues nottturno di Jack-a-Hammer. Che dire di più se non che Loser’s history è una splendida ballad che non vi lascerà indifferenti non foss’altro per il violino di Laura Kass ; God come down from Heaven una bella song tra blues e jazz con Stephen Doc Patt alla fisarmonica e When my baby wakes up un altro bel blues in cui il sax baritono di Steve Marsh ti si appiccica addosso come il fumo di una bettola di New Orleans. Chiude il tutto un piccolo gioiellino strumentale per chitarra sola. E quando arriverete lì vi verrà la voglia di rimettere il disco daccapo. Ne sono sicuro.

Fabrizio Poggi

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