. Arctic Monkeys – Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not

Arctic Monkeys – Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not
(Domino/Self)
www.arcticmonkeys.co.uk

The UK Press Hype Machine strikes again, but this time even internet has its share in the Arctic Monkeys’ record-shattering success. Their debut album is quite good, though.

È un fatto accertato che gli inglesi abbiano bisogno di mantenere costante il livello di eccitazione, quella che in lingua si definisce “hype”, proprio come se fosse una droga. Hanno bisogno di vedere Kate Moss in copertina che tira di coca per poi far finta di scandalizzarsi e, vista l’importanza socioculturale che la musica pop riveste nel loro paese, devono avere nuovo gruppo ogni settimana. Da esaltare, lodare, definire la migliore band dell’ultimo periodo (lustro, decennio, ventennio, etc), salvo poi annoiarsene presto e mollarlo per strada poco dopo. Li lasciamo fare volentieri, un po’ perché il gioco continua a divertirci, un po’ perché ridendo e scherzando di pop e rock ce ne hanno regalato una considerevole fetta, spesso di qualità superba. Al momento in cui scrivo questo disco ha appena battuto il record di vendite nazionali per un debutto grazie a 363.735 copie smerciate in una sola settimana, record che per un po’ è appartenuto anche agli Oasis, di cui questi Arctic Monkeys sono già dati come eredi. Con una differenza non da poco, che ha spinto molti addetti ai lavori nel predire il cambio definitivo: i quattro ragazzini di Sheffield sono i primi di sempre ad essere andati al numero 1 con un singolo, I Bet You Look Good on the Dancefloor, promosso soltanto via internet, ed è stato un bello smacco per coloro che avevano individuato proprio il web come primo sospetto a cui imputare l’imminente morte della musica. La ricetta dell’album è molto semplice, come sempre accade in questi casi: chitarre ben affilate che accompagnano testi impegnati a descrivere il classico scenario rock adolescenziale (droghe, donne, caos, noia di provincia), tuttavia sorprendenti per acume ed ironia, ed influenze ben distinguibili – Jam, Smiths, Kinks, magari anche i Wedding Present più scartavetrati – con un occhio sempre attento a mantenere i pezzi ballabili, forse la vera differenza che corre fra il rock inglese di oggi e quello degli anni ’90. Originalità zero, ma sono tanti i pezzi che funzionano. The View From Afternoon esplode dal nulla e inizia il disco come un vero inno punk, Fake Tales of San Francisco si occupa di uno dei vizi storici degli appassionati di musica, raccontarsi cazzate, con un giro di basso che batte i Franz Ferdinand 2-0 in trasferta. Still Take You Home ruba un riff ai Fall e li rimastica in chiave pop, I Bet You Look Good on the Dancefloor e When the Sun Goes Down fanno benissimo il loro mestiere di singoli da numero 1 grazie a ritornelli che rimarranno in mente per tutto il 2006.
Impossibile non sorridere quando l’eccitatissimo NME li piazza al sesto posto nella lista dei migliori album inglesi di sempre, ma sostanzialmente il lavoro è onesto e funziona molto più di tanti altri che rimangono nel sottosuolo e vengono (sono stati, verranno) celebrati proprio in virtù di quello.

Bernardo Cioci

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