. La nuova scena musicale americana

L'altra America

In America si sta facendo strada una nuova scena cantautorale, che attinge alle più diverse influenze, dal rumore urbano ad una mistica quiete. Scopriamola insieme

La scena musicale Americana è carica di novità. Non si può chiaramente pretendere di offrire un quadro onnicomprensivo, ma basta fermarsi sulle novità locali esposte in vetrina nei più importanti negozi alternativi della costa Est e Ovest (Other Music di New York, Amoeba Music di San Francisco e Los Angeles, Aquarius Records di San Francisco) per raccogliere diversi nomi interessanti, all’insegna di una enorme varietà stilistica. È proprio a questi nomi che il panorama che segue vuole dare importanza.

Certo questo non è un fenomeno nuovo, dal momento che cominciando con Julian Cope sono molti gli artisti che hanno perseguito direzioni musicali simili, a cavallo tra rumore, buona scrittura e psichedelia. I nomi di riferimento del genere, da Dino Valenti a Skip Spence, possono essere rintracciati nell'articolo di Ernesto de Pascale (PdB marzo 2005): Gemstones of the far out – albums too pure to classify. Ciò che è interessante è come questo tipo di musica stia rifiorendo, lungo un percorso che arriva fino ai gruppi di seguito trattati ma che passa per loro diretti predecessori e ispiratori come August Born o Six Organs of Admittance.

Cominciamo con uno straordinario album strumentale di debutto, firmato dalla band di New York Tarantula A.D. e dal titolo Book of Sand (Kemado Records). Il gruppo è un nome nuovo, ma fra gli ospiti annovera personaggi conosciuti come Devendra Banhart e Sierra Casady delle CocoRosie. Il genere è sospeso tra progressive, musica classica, psichedelia strumentale, con la caratteristica di alternare delicati momenti acustici con intense parentesi veramente hard rock. E’ un album dai toni fortemente evocativi, di musica visuale e visionaria. Momenti molto filmici, che tranquillamente potrebbero prestarsi ad una colonna sonora, come “Prelude to the fall”, si incastrano con altri di intensa drammaticità (“The Lost Walz”). Non mancano parentesi di ottimo difuorismo come nel conclusivo “The century trilogy III: the fall” o “Riverpond”. È un disco fortemente sinfonico, in cui il gruppo fa la figura di un’orchestra. Un album che spiazza appena messo nel lettore, ma che quando si conclude lascia la voglia di suonarlo da capo per scendere in profondità e capirne qualcosa in più. Curato, completo, una piccola opera rock. (www.tarantulaAD.com)

Hartley Goldstein è forse il più underground dei fenomeni, non in termini di genere ma di musica di qualità per un circuito ristretto. Stringiamo l’obbiettivo su una unica città, New York. Forse basta su un solo negozio di dischi ma che – attenzione - contiene un universo: Other Music.
Cliente storico di questo negozio, critico musicale e fan del rock secondo il più classico degli stereotipi, Goldstein si può considerare una loro scoperta. Quelli di Other Music hanno recensito l’EP di Goldstein sul loro sito (www.othermusic.com) che ha quasi l’autorevolezza di un piccolo magazine indipendente, insieme al meglio della scena alternativa, americana e non solo, appena arrivato nel loro negozio. Lo hanno fatto con affetto, parlando di un amico, sponsorizzando la capacità di un fan di trasformare in musica le proprie passioni. E forse mai definizione fu più calzante della musica di Goldstein. Un EP molto divertente e ben scritto, semplice e attraente al primo ascolto, in cui i testi sono dedicati al produttore Brad Wood (Brad Wood), a George Harrison (The Mystery of George harrison’s Beard), a Woody Allen (A Love song for Annie Hall), tutti debitamente ringraziati. Storie che sono il massimo sfoggio delle sue tenere memorie e aspirazioni da amante del rock, messe in musica con varietà spaziando tra pop-rock e brani acustici, college rock e cantautorato. Un produzione firmata da Adam Lasus, lo stesso dei newyorkesi Clap Your Hands Say Yeah il cui album di debutto è al centro delle attenzioni della critica.
La soddisfazione di andare in un negozio di dischi e portarsi il suo EP a casa, a meno che qualcuno non voli a NYC, resterà insoddisfatta per un bel po’. Per il momento il suo disco è comunque reperibile, e ne vale la pena per i curiosi dei fenomeni underground, sul negozio on line Cd Baby (http://cdbaby.com/cd/hartleygoldstein). Sito ufficiale www.hartleygoldstein.com

Se una delle direzioni di evoluzione è quella della musica rock suonata ad alto volume (Arcade Fire, Clap your hands say yeah), l’altra è quella di valorizzazione e ricontestualizzazione del folk acustico. Si muovono in questa direzione con i loro ultimi album Espers, Diane Cluck, Lavender Diamond.

Provenienti da Filadelfia, gli Espers hanno dato qualche mese fa alle stampe The Weed Three (Lucust), di poco successivo al loro cd di debutto che porta il nome della band. Nati come trio, la formazione si è in breve tempo estesa – non sappiamo ancora quanto stabilmente– a sei elementi. Autentica miscela di acid folk e psichedelia, gli Espers sono un prodotto americano che ha ben presente la lezione del british-folk rock di fine Sessanta e che sa metterla in pratica. Per questo The Weed Three le composizioni originali si limitano ad una conclusiva “Dead King”. Per il resto la scelta dei brani verte su cover di Nico, Durutti Column, Blue Oyster Cult e versioni di tradizionali come “Rosemary lane” e “Black is the color of my true love’s hair”. Si valorizza la ciclicità delle strutture, con impasti di voce maschile e femminile torniti da frasi di violoncello e effettistica tanto dosata quanto efficace. Non si eccede mai, ma quando si approda agli effetti come sullo strumentale di “Blue Mountain” (di Michael Hurley) il risultato è ottimo. Proprio negli strumentali e assoli (come quello di Flamig Telephats dei BOC) in cui l’attenzione si rivolge alla cura della sonorità il gruppo tocca i suoi apici. (www.espers.org)

Sempre sul binario del folk si muovono Lavender Diamond, guidati dall’angelica voce della cantante Becky Stark. Anche loro fenomeno estremamente indipendente come Hartley Glodstein, provengono però dalla sponda opposta dell’America, Los Angeles. Hanno registrato appena un EP con 4 brani, The Calvary of Light, di orientamento folk acustico, country (il brano Please) e cantautorale, con influenze nel modo di scrivere e pensare la musica che devono qualcosa anche alla loro origine californiana. (www.lavenderdiamond.com)

Se echi del folk più tradizionale si riscontrano in Espers e Lavender Diamond, la giovane cantautrice Diane Cluck, Newyokese di adozione e attualmente stabilitasi a Brooklyn, piega più in direzione freak-folk. Di estrazione classica e con una passione per Satie, la Cluck ama cimentarsi in diversi strumenti. Nel suo recentissimo Countless Times (Voodoo-Eros) la troviamo per lo più da sola con la sua chitarra, mentre affronta composizioni folk estremamente essenziali e minimali, spesso ripetitive, sempre tornite dalle linee melodiche melismatiche della sua voce. La cluck utilizza la voce quasi come uno strumento, arrampicandosi alla ricerca di linee irregolari e imprevedibili. Un folk libero ma costantemente caratterizzato dal binomio voce-chitarra, delicato e molto lieve anche grazie agli arrangiamenti esigui. Estrosa ed esoterica, a ragione sta pian piano conquistando unanimi alti voti dalla critica internazionale.

Altri artisti navigano – navigare è un termine che restituisce abbastanza bene l’idea – al di là dei generi. Quasi tutti quelli di cui si tratta in questa sede cercano di farlo, ma ad alcuni riesce particolarmente naturale. Un buon esempio sono Jackie-O Motherfucker, che appartengono alla schiera di coloro che in America con il proprio sound sono intenzionati a mostrare l’inadeguatezza dell’attuale terminologia musicale. Nati nel 1994 come duo, il loro più recente album si chiama Flags of the sacred harp (ATP). Si apre curiosamente con due tradizionali arrangiati dal gruppo. Nel primo la parte cantata, folk semplice e roots, sfuma in uno strumentale freak, libero, all’insegna dello sperimentalismo sonoro. Ma è solo l’inizio in confronto alla totale perdita delle coordinate a cui si va incontro nel quarto brano dell’album. Effetti, confusione, sovrapposizione, assenza completa di una qualsiasi struttura assalgono l’ascoltatore e lo trasportano in un emozionante viaggio musicale che torna con i piedi per terra solo laddove, nel corso dell’album, si piega di nuovo verso minimali parentesi freak-folk. Per non parlare di una demenziale ghost track con cover della “limbo dance”. Nel suo insieme, notevole! (sito della casa discografica www.atpfestival.com)

Su una linea molto simile si pongono gli ottimi Wooden Wand and The Vanishing Voice con il loro The Flood (Trouble Man Unlimited). Il loro album è quasi una versione amplificata di ciò che riescono a fare Jackie-O Motherfucker. A differenza della semplicità e del minimalismo che contraddistinguono JOMF nelle parti cantante, Wooden Wand and The Vanishing Voice dimostrano, nel momento in cui si cimentano nella scrittura vera e propria, di avere una certa abilità nel giocare con gli accordi e di saper sfruttare anche armonie più complesse ( come in “Dogpaddlin' Home In Line With My Lord” che in mezzo al delirio del resto dell’album appare come una vera e propria canzone). Sconsigliato come antidoto contro il mal di testa, il resto dell’album è una totale confusione di frequenze che fa ridimensionare la percezione del termine “osare”. Quando Wooden Wand and The Vanishing Voice osano, come sulla conclusiva “Satyn Sai Sweetback Plays Oxblood Boots” inseriscono frequenze (perché suoni è già un lusso) veramente urtanti e fastidiose, ben peggio delle unghie sulla lavagna. Il genere? domanda da non farsi. Se le orecchie resistono fino alla fine - e forse il terzo brano acustico sta lì di posto perché altrimenti nessuno ci riuscirebbe - se ne esce scossi ma notevolmente felici.

Quanto a stranezza fa compagnia a questi due gruppi Fursaxa, anche se il suo lavoro si colloca su un gradino qualitativo un minimo più basso di JOMF e Wooden Wand. Nome d’arte di Tara Burke, il suo album, pubblicato per la stessa etichetta di Jackie-O Motherfucker (ATP), segue alcuni LP dati già alle stampe in passato. Mantra psichedelici, sonorità mistiche e medioevali evocative di atmosfere rituali caratterizzano un album che è strumentale come impostazione e in cui i cantati hanno i toni di minimali cori religiosi. Un ancient folk decisamente particolare e estatico. Biglietto da visita per il mistico viaggio è una curiosa copertina rosa su cui è disegnata una farfalla che diventano due uccellini nel momento in cui si capovolge. Quasi una metafora del disorientane confluire e confondersi delle parti musicali le une dentro le altre. Non un album di facile ascolto, ma molto affascinante.

Per concludere, San Francisco regala una novità da parte dei Gris Gris. L’album “For the season” (Birdman) è costantemente in equilibrio tra rumorosi strumentali e sobrio cantanutorato psichedelico, spesso in debito verso la psichedelia anni ’60. Una band che non poteva provenire altro che dalla sua città di origine. (Sito dell’etichetta www.thebirdmangroup.com)

Siamo di fronte ad un’esplosione di ecletticità e varietà, che ha per denominatore comune, da Est a Ovest degli States, la cura per le copertine ( stravaganti, colorate, spesso disegnate a mano), la voglia di sperimentare e soprattutto il senso di appartenenza ad una nuova scena, determinata per davvero a farsi spazio.

Giulia Nuti

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