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Intervista a Mark Olson

Non è passato molto tempo da quando sei stato l’ultima volta; come stai vivendo questi giorni italiani?

Ero in Italia in primavera. Suono con Michele Gazich da quasi un anno. È stato in tour con me l’anno scorso e mi ha accompagnato pochi mesi fa… cerco di tenermi in stretto contatto con l’Italia e gli italiani.

Il tuo ultimo album, ‘The Salvation Blues’ ha avuto una gestazione abbastanza lunga ed è stato scritto e registrato in un momento molto intenso della tua vita anche personale; è difficile convivere ogni sera con canzoni che hanno un così forte legame con la tua vita personale, o è mutato il rapporto tra te, non più soltanto autore ma esecutore e le canzoni?

Quando scrivo tendo a prendere ispirazione da ciò che ho vissuto ma al tempo stesso ad avere uno sguardo distaccato, come dall’alto, così da non renderle troppo autobiografiche. Le canzoni hanno sempre una componente personale e intima su cui deve operare la capacità poetica di scrittore e autore. Nel momento in cui suono dal vivo le mie canzoni sono concentrato su come la melodia e le parole siano in sintonia fra loro e non a quando o perché le abbia composte. Mi interessa che le canzoni suonino bene, che si crei una sintonia tra la band e il pubblico. Considera poi che non suoniamo solamente canzoni da questo album ma un buon mix di brani provenienti anche dai miei album passati e questo aiuta a creare un equilibrio nuovo che varia ogni sera a seconda del pubblico che ci viene a ascoltare.

Il titolo del tuo ultimo album utilizza la parola ‘Blues’ abbinandola però ad sostantivo – ‘Salvation’, Salvezza – che ha sì un connotato religioso, ma che non è propriamente vicino all’immaginario tipico delle liriche blues improntate più sulla disperazione, sulla difficoltà di vivere, di amare, di essere rispettati; qual è il tuo legame con il blues?

Ho dei forti legami con il blues. I musicisti che hanno suonato e prodotto il primo disco di Bonnie Raitt erano soliti suonare in differenti band, in alcuni locali di Minneapolis. Io, da ragazzo andavo spesso a ascoltarli: ai miei occhi ed orecchi erano davvero fantastici malgrado non li conoscesse nessuno all’epoca; è stato un passaggio importante nella mia formazione artistica che mi ha permesso di conoscere il vocabolario del blues e di apprezzarne tutte le sfumature. Nel caso poi del titolo dell’album ho scientemente messo insieme due parole che, ad una prima impressione, non stessero bene insieme; fa parte del mio modo di scrivere: creare dei contrasti tra le parole, una sorta di ying yang lessicale. Avrei potuto chiamarlo ‘Salvation Time’ ma sarebbe stato troppo ovvio, banale; ‘Salvation Blues’ invece ti fa riflettere, cattura la tua attenzione. Il blues, almeno per me, ha sempre poi avuto un forte potere catartico, e ascoltarlo mi ha sempre dato emozioni e sensazioni positive; se ripenso a quelle serate nei bar di Minneapolis, ricordo la gioia e l’energia che le performance di quelle band mi davano.

Nell’immaginario collettivo il cantautore americano è colui che narra grandi storie con una prospettiva quasi filmica, da sceneggiatura; il tuo approccio è invece diverso, obliquo e a più livelli, in cui sono le emozioni più la storia a dover catturare l’ascoltatore.

Se devo usare un paragone con un’ altra disciplina mi sento più vicino al teatro. Nelle mie canzoni cerco di portare le mie esperienze personali e di trasformarle in altro, aggiungendovi nuovi sentimenti. Credo che ci sia state più generazioni di musicisti influenzate in America dal linguaggio pubblicitario che ha dominato gli ultimi quarant’anni e che aveva come fine primario quello di “arrivare” al numero maggiore di persone attraverso slogan e facili giochi di parole. Mi ricordo che da piccolo in Minnesota, trovavo incomprensibile che tutti improvvisamente utilizzassero lo stesso modo di dire perché c’era stata una pubblicità o che per forza ognuno dovesse avere un soprannome… a chi mi chiamava “Ollie” ero solito rispondere che il mio nome era Mark Olson. Io per contro venivo da una famiglia in cui la parola avere un valore quasi sacro: mio nonno era scrittore e mia nonna era solita leggermi libri, per me era inconcepibile questa massificazione del linguaggio.

I tuoi testi sembrano avere il pregio di offrire all’ascoltatore la libertà di poterli leggere e interpretare, di diventare altro da ciò che sono già…

È esattamente quello che vorrei accadesse e che non mai sicuro che accada. È frustrante perché ho spesso la sensazione che le persone non colgano questo aspetto delle mie canzoni e dei miei testi. Alla base di tutto c’è il semplice concetto che non bisogna accettare una sola unica storia. La vita di ognuno di noi è il frutto di tante storie che s’incontrano, scontrano, finiscono ed iniziano. Un evento comune a due persone può essere raccontato dai protagonisti in modo completamente diverso.

Puoi parlarci di ‘Sandy Denny’, la canzone che hai dedicato all’icona del folk rock britannico?

Ero in Norvegia, su un treno il giorno che ci furono gli attentati terroristici a Londra. Fermarono il nostro treno e mi ritrovai sulla banchina con un una tribute band norvegese dei Fairport a parlare di musica e di quanto Sandy Denny fosse brava. Quell’incontro mi fece tornare in mente una foto che ritraeva Sandy in un completo da scuola con in braccio una chitarra, le gote rosse e  le lentiggini: era la materializzazione della dolcezza e dell’innocenza. La canzone è nata da quell’immagine in contrasto con la breve e intensa vita che Sandy ha vissuto.

Dove suoni stasera?

Suoneremo a Brescia. Ieri a Bergamo è andata molto bene. In Europa il pubblico sembra essere molto recettivo: Svezia, Norvegia, Spagna, Olanda, Italia. 

È un concerto prevalentemente acustico o c’è un momento elettrico?

Ho cercato di creare una band che abbia dinamica e volume. Il nostro batterista suona solo percussioni africane e questo ci aiuta a dare volume e potenza alle canzoni. Gli altri strumenti sono chitarra acustica, violino e djmbe suonato da un musicista norvegese, che suona anche il piano.

Sei stupito del fatto di ricevere un così gratificante riscontro in paesi in cui l’inglese non è la lingua ufficiale?

È incredibile, non so spiegarmelo, ma è ancor  più strano per me non riuscire a capire perché non vengo compreso in America e Inghilterra… quando ero un ragazzino non riuscivo a comunicare con i miei coetanei. È come se il mio linguaggio non fosse sullo stesso livello di comprensione con quello medio americano. Eppure io vorrei riuscire a comunicare e vedere così apprezzato il mio valore come autore e sono fortunato ad avere paesi come l’Italia o la Norvegia che sembrano aver compreso la mia poetica.



Jacopo Meille


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