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Sandro Lombardi - Gli anni felici. Realtà e memoria nel lavoro dell’attore
Garzanti editore, 2004



È con un titolo beckettiano che Sandro Lombardi ha deciso di ripercorrere la sua vita d’artista, di attore totale, di autore e ricercatore, di intellettuale che oggi si ritrova con alle spalle quasi trent’anni di teatro.
Lo attraversa sul filo di una memoria precisa, a più voci in forma di monologo: sono “Gli anni felici” (edito da Garzanti), quelli che dall’infanzia nell’Aretino, in Val d’Arno, porteranno Sandro Lombardi a viaggiare in tutta Europa ed in Africa, nell’amato Marocco.
Gli anni felici sono quelli di una formazione continua, di un confronto serrato con le trasformazioni culturali che segneranno il mondo della cultura in Italia e non solo: si incontrano la Parigi degli anni ’70, la New York di inizio anni ’80, poi Berlino, e naturalmente Roma, Milano, e Firenze, che ritorna lungo tutta la narrazione, cogliendola in anni fervidi e animati, fino al progressivo spegnersi culturale dell’ultimo decennio.

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La notte arriva il fruscìo della Greve che scorre in fondo alla forra mentre la luna sbianca i profili dei dossi. A febbraio fioriscono i mandorli e le mimose, poco dopo i meli, i peschi e i ciliegi. A maggio entra nelle stanze il profumo del gelsomino e a settembre i suoni della vendemmia.
Malgrado la solitudine, questo luogo isolato e un po’ selvaggio è al centro di una costellazione di riferimenti: in mezz’ora posso arrivare a Firenze, dov’è l’appartamento in cui ho vissuto i giorni più belli degli anni felici e dove tengo in ordine i libri, i dischi, le fotografie e l’archivio di compagnia; in un’ora si raggiunge Arezzo, la città dove sono nato; con lo stesso tempo arrivo a Ponte a Poppi dove mia sorella custodisce eroicamente la casa dell’adolescenza… Per Siena, la più orientale e materna delle città toscane, mèta delle prime gite con i compagni, bastano una cinquantina di minuti; (…)

Sandro Lombardi, oggi forse il più grande attore teatrale attivo in Italia, nato nel 1951, scrive in una lingua colta, ricca, armoniosa, musicale. Possiamo leggere ad alta voce e vedere emergere dalle pagine i personaggi che hanno animato e trasformato il mondo del teatro, ma non solo. La scrittura e i ricordi sono percorsi da una tensione artistica, da una reale volontà di restituire ad un’epoca, tutto sommato molto vicina, la sua fisicità, la sua vivacità: ne esce il ritratto di un attore profondamente consapevole del suo lavoro, a stretto contatto con tutte le avanguardie artistiche che in trent’anni hanno progressivamente trasformato la cultura di un paese. Tutto questo nel rispetto e nell’amore viscerale e ancora una volta consapevole, per la tradizione della scrittura e dell’arte, dove ad emergere è la figura di un’intellettuale di apertura europea che intesse la narrazione con continui e quasi visionari richiami ad itinerari nell’arte del Rinascimento italiano e francese, e ad incontri fortuiti, quasi delle apparizioni, con le figure guida della sua crescita artistica:

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Quasi quotidianamente, uscendo da scuola, facevo una visita agli affreschi del coro di san Francesco. Nelle ore del primo pomeriggio, quando vi passavo prima di andare a prendere il treno che mi avrebbe riportato a casa, non c’era generalmente nessuno. Ma un giorno, circa un anno dopo l’apparizione di Julian Beck del Living theatre, vidi stagliarsi nel piccolo vano che immette tra quelle pareti palpitanti di vita una fisionomia familiare. Guardai meglio: era Pasolini. Per un attimo il mio sguardo s’incrociò con il suo. Avrei voluto parlargli, dirgli la mia ammirazione per le sue poesie, per i suoi film… E forse, malgrado la timidezza, ne avrei trovato il coraggio se fosse stato solo. Ma era in compagnia di un ragazzo in divisa da soldato. Doveva essere la primavera del 1969. Avevo diciassette anni.” (…)

Enrico Bianda


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