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Can – Monster Movie/Soundtracks/Tago Mago/Ege Bamyasi
(Mute/Emi)
www.spoonrecords.com










È quasi impossibile elencare i musicisti che nel corso di trent’anni hanno subito l’influenza dei Can, dato che l’opera del gruppo tedesco si è reincarnata nelle forme più insospettabili, dai Public Image Ltd alle legioni post-rock sorte durante gli anni ’90. Nonostante la fama accumulata durante gli anni, dire Can significa parlare di un oggetto ancora difficile da definire, assolutamente peculiare anche all’interno dell’iconografia rock “aternativa”, e rimetterne mano dentro l’opera è un’operazione delicata. Queste prime quattro rimasterizzazioni, uscite da poco in versione “ibrida” CD/Super Audio CD, rendono finalmente giustizia ad un gruppo che in studio utilizzava un complesso raggio di suoni e ritmi, laddove le precedenti erano compromesse da un fastidioso fruscio di fondo (onta a dir poco incredibile, in piena era digitale…) nonché da un basso che nel mix era posizionato troppo indietro, quest’ultimo peccato tutt’altro che veniale per quella che è stata l’entità più “fisica” di tutta l’ondata kraut-rock. Considerazioni tecniche a parte, l’avventura dei Can ha senza dubbio avuto un altissimo profilo umano oltre che musicale, come testimoniano le interviste incluse nel Can DVD, uscito alla fine dell’anno scorso ed acquisto essenziale al pari di queste ristampe. Formatisi nel 1968 a Colonia, in una prima incarnazione che vedeva l’americano Malcolm Mooney alla voce, Irmin Schmidt alle tastiere, Jaki Leibezeit alla batteria, Holger Czukay al basso e Michael Karoli alla chitarra, i Can erano organizzati come un collettivo puro, virtualmente privo di impulsi egoisti e mai attraversato da capricci di primedonne, ma soprattutto aperto a qualsiasi forma di musica senza snobismi accademici (dall’accademia, peraltro, provenivano sia Czukay che Schmidt). Dai Beatles a Sun-Ra, dal garage-rock alle prime sperimentazioni dell’elettronica analogica, non c’era niente che i cinque disdegnassero ascoltare, in un processo assimilativo a cui ogni membro aggiungeva qualcosa. Il debutto Monster Movie, uscito nel 1969, presenta la materia Can ancora grezza, da modellare. La voce monotona di Mooney – la sua presenza durerà giusto qualche mese di tour, causa un esaurimento nervoso – aggiunge un retrogusto da garage band di second’ordine, anche se le coordinate future sono già disposte sul tavolo. Ancora in versione prototipo (l’insistenza ossessiva di You Doo Right, mutuata dalle sperimentazioni minimaliste di Terry Riley, anticipa ciò che sarebbe accaduto di lì a poco), Czukay e soci guardano all’America dei Velvet Underground e a quel rock slabbrato e dissonante, per contestualizzarlo entro una dimensione ritmica più complessa e, se possibile, più dilatata. Il risultato finale non realizza appieno le aspettative, anche se pezzi come Father Cannot Yell e Outside My Door ritraggono il gruppo nella sua incarnazione più violenta. Con Soundtracks, raccolta di pezzi scritti per il cinema, si affinano alcuni equilibri senza arrivare alla quadratura del cerchio, anche se la novità si chiama Damo Suzuki, cantante di origine giapponese che accompagnerà gli imminenti trionfi. Esiste una cerchia di fan che reputa Soundtracks il pinnacolo di tutta la produzione del gruppo, ma in realtà la raccolta offre qualche momento di valore (She Brings the Rain, la cui leggerezza quasi jazz sarà il tema portante di tutto Future Days, e l’intensa Mother Sky, che vale più di qualsiasi pezzo contenuto in Monster Movie), senza spostare granché il baricentro innovativo. Poco male, perché la visione inseguita per due LP si materializza subito dopo, e questa volta è nitida e potente come non mai. Guidato dalla voce potente e duttile di Suzuki, Tago Mago esce nel ’71 ed è il primo capolavoro, l’album in cui le forze creative della formazione riescono a superare ogni distanza. Augmn e Peking O, due pezzi che influenzeranno pesantemente altri grandi come i Suicide, rappresentano il primo ponte con l’elettronica tanto cara a Schmidt, ma l’epicentro è la straordinaria Halleluwah, diciotto minuti che imbrigliano la forza primale del rock e lo articolano oltre i limiti che allora si credevano pensabili, creando una vera e propria esplosione controllata, mentre la struttura circolare di Oh Yeah rappresenta un nuovo modo di pensare la psichedelia, con i gloriosi squilli di Sterling Morrison a riecheggiare lontani nella chitarra di Karoli. Il terzo album, Ege Bamyasyi, è invece meno innovativo ma amplia il raggio d’azione col funk insistito di Vitamin C, l’ulteriore rimando al minimalismo elettronico di One More Night (gli Stereolab ruberanno a piene mani sia da qui che dai Neu!). Sing Swan Song, poi, sarà ricordata come la miglior canzone “pura” che i Can abbiano mai scritto, e Spoon come l’unico successo, aiutato da un programma televisivo tedesco di cui fu sigla. Adesso l’attesa è rivolta alla seconda tranche di rimasterizzazioni, che dovrebbero arrivare durante il 2005. Fra loro c’è un altro grande capolavoro, Future Days, l’ultimo con Suzuki alla voce, e una serie di dischi “minori” ma sempre in grado di fornire spunti creativi.

Bernardo Cioci

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