. Keith Emerson


Intervista a Keith Emerson
1 dicembre 2005

Incontro Keith Emerson a Roma il primo dicembre del 2005. L’appuntamento è in albergo intorno alle 13. Si è svegliato da poco, è un po’ stanco, è arrivato ieri da Trento, altra tappa del tour italiano, e stasera suonerà all’auditorium di via della Conciliazione. Comunque, da buon inglese, gli bastano poche sorsate di tè per rilassarsi e parlare della sua vita e della sua musica. La sera al concerto mostrerà per intero la sua splendida forma: due ore di musica, con due lunghi bis, senza rispamiarsi, circondato da un set di tastiere imponente. C’è il Modular Moog, quello vero, quello di allora, avvolto da decine di cavi intricati. C’è l’organo hammond, graffiante e ruggente, e c’è anche un incredibile pianoforte a coda color rosso Ferrari fiammante. Emerson non salta più sull’organo, non pianta coltelli sulla tastiera, ma è capace di suonare la Toccata e fuga in re minore di Bach, ponendosi dietro alla tastiera. Mi viene in mente che anche Frescobaldi stupiva il pubblico dando le spalle al clavicembalo e suonando con le mani dietro la schiena. E, come per Frescobaldi, non si tratta di spirito clownesco, di puro esibizionismo, di vuoto virtuosismo: è un modo per manifestare, anche con la gestualità, una enorme carica di musicalità, di voglia di comunicare. Durante il solo di Moog su Lucky Man le frequenze basse fanno vibrare la pancia al punto giusto, mentre il set America e Rondò è infuocato come ai tempi dei Nice. Segue un movimento dal Concerto per pianoforte, il medley Country Pie-Brandeburg, tutta la suite di Tarkus e, come primo bis, addirittura Rock & Roll dei Led Zeppelin. La band che lo accompagna, con Dave Kilminster alla chitarra, il travolgente Pete Riley alla batteria e Phil Williams al basso è di altissimo livello. Qualche problema di acustica, ma purtroppo dobbiamo lamentare che Roma, nel ventunesimo secolo, non ha ancora uno spazio adeguato ai grandi concerti rock. Fa niente, anche trenta anni fa, quando ascoltavamo ELP al Palasport l’acustica era un disastro eppure ci spellavamo le mani di fronte alla loro bravura e all’energia incontenibile. E ce le siamo spellate anche questa volta, quando, dopo Honky Tonky Train Blues, non volevamo lasciarlo andar via.



Qual è secondo te il significato del termine progressive?

Certamente non chiamavamo cosi questa musica negli anni Sessanta, usavamo altre espressioni come freak out, psichedelica, o, semplicemente, musica contemporanea. Certamente non usavamo mai il termine progressive.
È piuttosto ironico pensare che quando ho formato gli ELP, nel 1970, un giornale inglese ci descrisse come una band di heavy metal. Oggi il termine heavy metal si usa per gruppi come gli ACDC o altri che indossano pantaloni aderenti e cacciano fuori la lingua quando suonano la chitarra. Secondo me il termine progressive fu usato dopo gli eventi, non ha avuto mai la giusta menzione alla radio soprattutto in America, ma anche in Inghilterra, tutto sommato, fu pure peggio. Oserei dire che tutti quelli che suonavano il cosiddetto progressive erano destinati ad essere tacciati dalla stampa come esibizionisti e pomposi. Credo che oggi stia sorgendo un nuovo interesse per quel genere di musica, anche se non ho ascoltato molti nuovi gruppi.

Quando i Nice proponevano rielaborazioni di temi di Bach o di Caikovskij, c’erano anche altri gruppi orientati verso il classico, come i Procol Harum o i Moody Blues

Ovviamente ero al corrente delle bande che menzioni, Procol Harum e Moody Blues, però non li consideravo come facenti parte dello stesso percorso che io stavo facendo con i Nice e con Emerson Lake & Palmer.
Ebbene diciamolo, i Procol Harum usavano l’organo in un modo corale e bachiano per A Whiter Shade Of Pale e avranno suonato una o due volte con un orchestra, ma il loro scopo era raggiungere le masse scrivendo canzoni pop. I Moody Blues non li ho mai percepiti come un gruppo che attingesse al classico. Certamente ci sono state varie occasioni in cui hanno utilizzato gli archi ma ciò non basta a definirli una band progressive. Erano una pop band, anzi una buona pop band, ma cercare di leggere tra le righe quello che facevan, solo perche utilizzavano gli archi o l’orchestra, non li colloca nella stessa categoria. I miei contemporanei come Genesis e Yes hanno ammesso di essere stati influenzati dalla direzione che avevo preso con i Nice e gli ELP.
Solo che Genesis, Yes, e anche i Gentle Giant, che pure ammiravo, sono riusciti con successo a essere gruppi progressive in grado però di lanciare anche un singolo pop di tre minuti.
ELP erano titubanti a lanciare un singolo perche credevamo che quando hai un pezzo di successo poi devi continuare con un altro e i tuoi veri fans ti guardano con disgusto, pensano che ti sei svenduto per un singolo, pensano che non sarai più lo stesso … insomma … dicono “questi devono fare un altro singolo e cosi via …” Così fummo sorpresi quando venimmo a sapere che in America Lucky Man era diventato un grande hit. Non avevamo alcuna idea, non l’avevamo promosso come tale e fu una sopresa ancora più grande quando Fanfare For The Common Man fu un hit in Inghilterra, nel 1977, per i 25 anni dalla salita al trono della regina Elisabetta. Fu una vera sorpresa perche era un singolo molto lungo, sette minuti, anzi credo che la casa discografica lo abbia accorciato, ma allora un brano strumentale tra le top ten era una cosa impensabile.

Ho ascoltato per la prima volta i temi di Bach dai dischi dei Nice, avevo dodici anni. Penso che per la mia generazione tu sia stato un po’ anche un maestro di storia della musica

Sono felice di sentirti dire una cosa del genere, ma non mi sono mai visto come un maestro, in alcun modo. Suonavo solo ciò che mi piaceva ascoltare e credo che allora ascoltavo Bach e mi piaceva suonarlo e, guarda caso, stavo in una band a cui pure piaceva, e questo è il vero motivo. Quindi per me è un complimento quando le persone oggi mi dicono che quando studiavano musica a scuola i professori mettevano la versione di ELP di Quadri di un’esposizione e la usavano per le lezioni. Ovviamente tutti gli studenti pensavano fosse fantastico un professore che ascoltava una rock band. È interessante pensare che quella sia stata la loro introduzione alla musica classica.
Tieni presente che anche io ho imparato piu o meno nello stesso modo. Bach, Musorgkij e Shostakovic, quando studiavo il pianoforte, non mi piacevano, anzi un po’ li detestavo. Credo che il mio interesse per i classici si sia sviluppato quando ho scoperto il quartetto di Dave Brubeck. Mi colpiva il modo in cui improvvisava con Paul Desmond al sax alto, il loro modo di improvvisare basato sul contrappunto. Allora ho pensato: se devo studiare la musica di Dave Brubeck devo studiare il contrappunto e ovviamente il miglior creativo da questo punto di vista era Bach e allora sono tornato a Bach.

Emerson Lake & Palmer, ma anche Genesis e Yes riempirono il gap tra esecuzioni in studio e esibizioni live, con molti sacrifici, perché la tecnologia allora era molto rudimentale. Cosa puoi dirci della tecnologia di ieri e di oggi?

Allora volevo solo creare un suono con tre persone, avvicinandomi il piu possibile a un’ orchestra. Oggi con le tastiere che ho e la tecnologia attuale è piu facile, ma alla fine degli anni Sessanta quando fu sviluppato il sintetizzatore Moog, era pensato solo per un impiego in studio, non era previsto il suo utilizzo on the road. Ma allora ho stimolato il suo inventore Bob Moog a realizzare un sintetizzatore adatto al palco.
Penso che Bob abbia preso la cosa come una grande sfida, ma era anche divertito. All’inizio non lo riteneva possibile e invece lo fece e la sua invenzione mi aiuto a definire meglio il mio suono, e certamente arricchì il mio stile compositivo.
Gli devo molto e mi mancherà, anche se so che lui vive nel Moog modular che suono ancora oggi.

Hai incontrato altri musicisti del mondo dell’elettronica, come Wendy Carlos?

Non ho mai incontrato Wendy Carlos. Lei è una persona molto schiva. Infatti l’anno scorso, a maggio, si è svolto a New York un festival Moog, tutti i suonatori di Moog erano presenti e abbiamo fatto un grande concerto con Rick Wakeman e Jordan Rudess tra gli altri. C’era molta gente e hanno chiesto a Wendy Carlos di comparire, ma pare che abbia addirittura minacciato di fare causa, perché non vuole avere nulla a che fare con tutto ciò, è diventata una specie di reclusa.


Puoi parlarci della scena progressive in Italia e dell’esperienza dell’etichetta Manticore?

Ascoltavo la Premiata Forneria Marconi e il Banco e con ELP formammo un etichetta, la Manticore, per incoraggiare queste band. Non ho mai avuto a che fare con la PFM quanto Greg e Pete Sinfield, ma eravamo amici e ho visto i loro concerti. Certamente ero un po’ cauto e non volevo farmi coinvolgere troppo nella Manticore e con le altre band della casa, credevo di non avere troppo tempo da dedicare, eravamo già impegnati nei nostri progetti e quindi l’ho fatto fare ad altri. In quel caso mi sono ritagliato un ruolo secondario nel progressive italiano, ma li ammiravo molto.

Hai mai avuto un interesse diretto per le avanguardie, parlo di Berio, Boulez, Stockhausen …


No, ma trovavo i lavori di Cage molto divertenti. Poi mi sono imbattuto nella musica di Ligeti. Ho ascoltato Atmospheres quando uscì 2001 odissea nello spazio, ma non mi sono mai sentito veramente tentato di andare in quella direzione, giusto per farmi due risate.

(Visto che ha citato Ligeti suggerisco a Keith di ascoltare Continuum e Hungarian Rock per clavicembalo. Quest’ultimo, in particolare, sembra scritto proprio nello stile di Emerson, Lake & Palmer. Accoglie il suggerimento incuriosito, e io aggiungo che, magari, potrebbe metterlo in repertorio)

Negli anni Settanta, quando ascoltavi in concerto ELP, Yes e Genesis ti aspettavi di ascoltare dal vivo i brani così come erano nei dischi. Ma Emerson Lake & Palmer però hanno dato sempre un ampio spazio all’improvvisazione.

Questo viene dal mio background jazz, da quando frequentavo altri jazzisti. Se suonavi lo stesso assolo due volte di seguito non eri un jazzista e questa era una specie di cartina di tornasole. Come potevi definirti un jazzista se non sapevi improvvisare, se facevi lo stesso assolo della sera prima?
Tutti i miei eroi, Miles Davis, John Coltrane, Cannonball Adderley, Bud Powll, Oscar Peterson, Thelonious Monk, non suonavano mai un pezzo nello stesso modo. Ricordo quando incontrai Oscar Peterson. Avevo un disco con una delle sue versioni di Chicago, il solo era assolutamente straordinario e lo imparai nota per nota. Quando mi trovai a lavorare con lui per uno show della BBC gli chiesi qualcosa riguardo a questo solo. Lui mi guardò stupito: “di quale versione stai parlando? Ho registrato Chicago così tante volte, non so di quale versione stai parlando.”
Allora cerco di adeguare il mio modo di suonare secondo questa prospettiva. Molta gente ama ascoltare dal vivo l’assolo che c’è nel disco, ma faccio questo solo in casi particolari. Di solito mi piace usare il concerto dal vivo per improvvisare.

Una volta le etichette discografiche avevano un loro stile, un carattere ben definito. Io comperavo dei dischi senza sapere nulla degli artisti, solo perché erano pubblicati dalla Island, dalla Harvest, dalla Charisma, dalla Vertigo. Cosa pensi dell’industria discografica attuale?

Credo sia molto triste che l’industria discografica sia diventato un settore cosi competitivo. Sono molto contento di aver sviluppato il mio linguaggio quando quella dittatura delle case discografiche non esisteva. Le case discografiche allora volevano che tu facessi qualcosa che le altre etichette non facevano. Così quando andai per la prima volta in uno studio con la etichetta Immediate ci chiesero di non fare cose che gli altri già facevano, di non fare cover, dovevamo fare la nostra musica, le nostre composizioni. Sono grato alla Immediate per avermi dato questa opportunità, è un valore che dura ancora oggi.
Naturalmente altre etichette discografiche sono più esigenti e, di solito, prima di farti entrare, ti chiedono una demo e io detesto questa cosa, perché spesso la demo suona meglio del prodotto finito. Insomma, io cerco di non subire queste imposizioni quando suono.

Come è nato Emerson Plays Emerson?

Fu dopo una conversazione con Richard Liddleton, il presidente della EMI classics. L’etichetta aveva bisogno di una spinta, era una etichetta classica e non puoi lanciare in eterno le sinfonie di Beethoven, avevano bisogno di qualcosa di fresco, di nuovo. Mi sembra che Rick Wakeman aveva ricominciato a usare l’orchestra sinfonica per il suo Viaggio al centro della Terra, ma io non volevo fare una cosa simile. Liddleton mi disse “perché non scrivi un altro Piano Concerto ?” e così ho cominciato a lavorarci, ma la spesa per tutta questa impresa non era sostenibile, volevano un tour, ma mettere insieme un’orchestra, pagare un copista, tutto questo non era nel budget. Così ho detto: “ho molte richieste per un album di pianoforte solo, perché non lo facciamo?” Mi ha risposto ched gli sembrava una buon aidea e così me lo hanno fatto realizzare. Purtroppo Viaggio al centro della Terra non ha coperto le spese, penso che la casa discografica abbia perso un sacco di soldi, ma devo fare tanto di cappello a Rick per averci provato.


Alcuni anni fa o incontrato Rick Wakeman, mi ha parlato di te e ha detto che siete molto amici

Lo siamo adesso (ride …) Tornando agli anni Settanta, quando mi accorsi di lui ero un po’ scettico, dicevo “ma chi è questo ragazzo?” No è un musicista veramente bravo, ha uno splendido senso dell’umorismo, è molto giocoso. Quando ci siamo incontrati lo scorso anno a New York e abbiamo fatto uno show con Bob Moog, Rick ha monopolizzato la scena, ci ha fatto ridere per due ore, raccontando barzellette: è un tipo veramente divertente.


Stefano Pogelli

(nelle foto Keith Emerson, Stefano Pogelli e il mitico fonico di Radio Tre Enrico Murgia)

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