. Dion - Bronx in blue

Dion - Bronx in blue
(Orchard/Spv/Audioglobe )
www.diondimucci.com
www.spv.com

Early king of New York’s doo woop & rock & roll goes back to his blues roots with emphasis and a strong capability for the blues language. Interesting, intriguing. The Robert Johnson’s songs plaid here are no less good than Eric Clapton’s renditions. Think about it!

Dion, iniziatore della scena newyorchese quando la scena del Vilage ancora era da venire e celebre per la famosissima “the Wanderer” cantata alla guida dei Belmonts, afferma nella note del nuovo “Bronx in blue” che ”prima di tutto il resto c’era il blues”. E lì dove l’italiano DiMucci lo aveva lasciato, nello stesso luogo della menta lo ritrova.
Così, con una operazione semplice ed onesta, la voce di brani celebri della prima onda del Rock & Roll va a scavare a fondo nel proprio trascorso per rimpossessarsi di ciò che più conta nell’approccio con la musica delle radici, l’attitudine. L’interprete di “Runaround Sue” e “Ruby Baby”(quella riproposta da Donald Fagen in “The Nightfly”) non scherza con il blues e mantiene integro un proprio stile, a tratti naif, a tratti da folk hipster che - e osiamo dire per fortuna - niente ha a che fare con quello del bluesman professionista, pseudo nero e ciondolone, intellettuale e sperimentale o chi altro esso sia.
A metà strada fra Dave Van Ronk e John Hammond, Dion Dimucci ha anche l’onestà di proporre a testa alta un bell’originale, “ I Let my baby do that “ il cui stile arpeggiato ricorda Mississippi John Hurt, in un album che non ha niente da invidiare a tanti e che rimanda a un paio di ben più celebri coetanei - per vicinato reale e suggestive fascinazioni - di Dion, quel Lou Reed che più volta ha parlato di essere stato tentato dal blues, o più in generale dalla musica che la radio suonava dopo l’imbrunire e Bruce Springsteen, basti ascoltare Dion in “Honky Tonk Blues “ e tirare le somme.
Si comincia quindi mettendo nel lettore quest’album con un po’ di diffidenza verso un artista che andrebbe invece riscoperto - soprattutto il suo album nei settanta prodotto da Phil Spector, davvero antesignano di “Born to run “ - e via via ci si sorprende nel riassaporare gusti che sanno di primo Village e di buona musica passata attraverso la cuna dell’ago del Gospel.
Dion in “Bronx in Blue “ dimostra la sua pertinenza al genere: persosi nelle droghe a 17 anni e poi nell‘alcool, disintossicatosi a 21 anni, Di Mucci ha compiuto nella sua lunghissima carriera varie curve a gomito ma sempre seguendo l’istinto che lo portava verso la buona musica, tornando folksinger senza esserlo mai stato prima ma con la competenza di chi era vissuto a contatto con il “vicinato”, infarcendo la sua musica con il feeling del momento.
“ Bronx in Blue “, un disco suggerito dallo storico produttore newyorchese Richard Gotteher dopo averlo ascoltato alla radio pubblica suonare in acustico e in diretta un set così, è una piacevole scoperta e un album che fa riflettere su quanto frequentemente si prenda un genere come il blues - diciamo meglio, soprattutto il blues - e lo si affibbi a questo o a quello senza valutare chi fra gli artisti sulla scena storia della musica abbiano altresì capacità di interpretarlo con buoni risultati. Dion si piazza di diritto fra quelli che, oltretutto, negli ultimi anni hanno voluto pagare un personale tributo a Robert Johnson ( Eric Clapton, Rory Block, Peter Green ) segno che un certo linguaggio arcano resiste al tempo più di ciò che venne dopo, o almeno di una parte di quel che seguì . Nel nome del mistero, della semplicità, di una cifra stilistica non adulterata la robot music sopravvive. La stessa cifra semplice, non adulterata, la ritroviamo in questo “Bronx in Blue“, nella voce di Dion. Un originatore, non dimentichiamocene.

Ernesto de Pascale

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