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Patti Smith, Trampin'
(Columbia/Sony)




L’orgia di suoni dell’anthem Jubilee e le sue liriche taglienti aprono Trampin’, il nuovo disco di Patti Smith, il primo per la Columbia, con cui nell’ottobre 2002 in coincidenza con il 148mo compleanno di Rimbaud, dopo molti anni con la Arista, ha firmato un nuovo contratto discografico. Il titolo che riprende uno spiritual della contralto americana Maria Anderson, rende magnificamente l’idea di fondo del disco, infatti sin dalla prima canzone appare come una sorta di viaggio attraverso la poesia e il rock per raggiungere alla fine di una lunga strada il cielo. La strada tracciata delle canzoni di Patti è come ha detto lei di recente “una metafora della nostra esistenza. Una parte della strada è bella, facile, l’altra è difficile. Ma bisogna andare avanti, mai smettere il viaggio, perché amiamo la vita", e questo lo si intuisce anche dall’alternarsi nel disco di ballate dolci a viscerale hard rock. La band è quella degli ultimi album, dal 1996, con Lenny Kaye e Jay Dee Daugherty, Tony Shanahan e Oliver Ray che ricreano alla perfezione tutti i canoni classici di ogni disco di Patti, immediatezza, potenza e grandi magmatiche improvvisazioni sonore. Ciò che impressiona di più sono proprio le lunghissime improvvisazioni sonore che supportano alla grande, il ritratto commovente di Gandhi e Radio Baghdad, entrambi sono dei potentissimi spooken word in cui Patti sfoga la sua rabbia, contro i mali che attanagliano il mondo. "Noi abbiamo inventato lo zero / Ma non significhiamo niente per voi / Noi siamo il vostro incubo arabo", questo sofferto grido che emerge da Radio Baghdad, in cui Patti attraverso la sua voce si fa portatrice di un messaggio di pace. E’ come se guardasse il mondo prima di una tempesta, ora che la tempesta è arrivata, il suo grido è lacerante. Il rock ritorna spesso nel corso del disco, come nella seconda traccia la splendida Stride Of Mind, ma senza dubbio toccano di più il cuore la malinconica dolcezza di Mother Rose e Cartwheels che con la delicata poesia di Trespasses, rappresentano i momenti di maggiore intensità del disco. Non da meno sono le mistiche e sensuali My Blakean Year e di Peaceable Kingdom, in cui si riscoprono in pieno le inalterate capacità vocali di Patti. Un discorso a parte merita la title track finale, in cui la Smith è accompagnata dal solo pianoforte della figlia, che suona come una catarsi finale, quasi le porte del paradiso si fossero aperte anche per lei.

Salvatore Esposito




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