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I Beatles all’Adriano: pura energia!
di Luciano Ceri

Caldo. Molto caldo. Faceva molto caldo sotto le palme di Piazza Cavour dove il mio amico Maurizio ed io aspettavamo che aprissero le porte del Teatro Adriano. Il mio amico Maurizio era anche il mio compagno di banco in quel primo anno di liceo classico ed io lo invidiavo molto perché i suoi genitori (sua madre suppongo) gli pagava la camiciaia per farsi le camice su misura. Strettissime, a quadretti piccoli, con il cannello sulla schiena e soprattutto con quella strana fettuccia di stoffa che partiva dal fondo posteriore della camicia, passava sotto, in mezzo alle gambe, per rispuntare sul davanti ad agganciare di nuovo la camicia con un bottone speciale posizionato alla fine dell’attaccatura dei bottoni normali. Un prodigioso marchingegno che impediva alla camicia di fuoriuscire dai pantaloni. Doveva essere anche molto scomodo avere una camicia così, però vuoi mettere essere tutto attillato dalla testa ai piedi, con i pantaloni a vita bassa ed una cintura bella grossa? Davvero lo invidiavo, anche se poi non so se me la sarei mai messa una camicia così. Io ripiegavo su quelle comprate a via Sannio, magari il pomeriggio del sabato alle tre per poi indossarle alle cinque in qualche festa rimediata all’ultimo momento. Dove non sempre c’era anche Maurizio, perché lui aveva un giro di amici diverso, ma quando ci incontravamo mi accorgevo che non ballava molto e che spesso si piazzava accanto al giradischi a mettere il più possibile dischi dei Beatles, dell’Equipe 84 e dei Rokes. Era stato lui, visto che abitava in Prati, vicino a scuola, ad informarci che al nostro juke-box preferito (accanto ad un chiosco-bar sul lungotevere) era arrivato Ticket To Ride e negli ultimi giorni di scuola ai primi di giugno – quei giorni che si riesce sempre ad uscire prima perché ci sono gli scrutini o perché qualche professore manca all’ultima ora – spesso ci andavamo a sentire i dischi. Le magiche note del riff iniziale di Ticket To Ride si diffondevano sul marciapiede mentre noi guardavamo raggianti i biglietti che Maurizio aveva comprato al botteghino dell’Adriano: lunedì 28 giungo, ore 16,30, diurna, balconata, lire 1500.


Avevamo scelto il lunedì un po’ perché Maurizio sarebbe andato al mare la domenica, il giorno del primo concerto dei Beatles, e un po’ perché i biglietti per la domenica erano finiti, o meglio, erano finiti i biglietti delle balconate, e quelli di platea erano veramente troppo alti per le nostre tasche, e a Maurizio, che se li sarebbe potuti permettere, non gli andava di andare da solo in platea. Io amavo molto l’Adriano perché mio padre mi ci portava sempre a vedere i film di James Bond appena uscivano, visto che a lui piacevano quanto a me, ed io aspettavo con ansia di leggere il titolo del nuovo film proposto in lettere nere su fondo bianco in quel riquadro lungo e stretto piazzato sopra le porte dell’Adriano e che di sera si illuminava di luce al neon. In più ero incantato da quella frase di chitarra elettrica che compariva sempre sui titoli di testa, che a loro volta mi provocavano non pochi turbamenti con le immagini di donne seminude appena visibili nella penombra di veli, luci offuscate ed effetti speciali. E fu proprio in quell’occasione, mentre guardavo il riquadro lungo e stretto sopra le porte del Teatro Adriano con su scritto “The Beatles”, che ebbi una strana sensazione, una percezione confusa ma allo stesso tempo molto definita, che quei due nomi, Bond e Beatles, difficilmente li avrei dimenticati e che sarebbero diventati oggetto di ammirazione ed affetto, e che sicuramente sarei andato, prima o poi, a Londra, dove immaginavo che i Beatles e Sean Connery si frequentassero, magari andando a cena insieme.
C’era un sacco di gente sotto le palme di Piazza Cavour, soprattutto c’erano un sacco di ragazze molto carine, vestite molto colorate e con i quarantacinque giri dei Beatles in mano, e c’erano anche alcune mamme, venute lì a controllare cosa stesse succedendo e perché per la prima volta a Roma si creava tanta confusione per uno spettacolo di canzoni in un teatro. Molti ragazzi avevano i capelli moderatamente lunghi, a coprire le orecchie ed appena il collo, e molti avevano gli occhiali da sole con le lenti a goccia, ed anche io ce li avevo, anche se non sapevo che si chiamavano Ray-Ban perché li avevo comprati a via Sannio e non c’era nessuna scritta sulla montatura o sulle stanghette. Ad un certo punto cominciammo tutti ad attraversare la piazza e quasi automaticamente ci trovammo di fronte alle porte, e poi entrammo dentro e poi su per le scale – ormai di corsa – ed alla fine entrammo nel nostro palchetto di balconata, forse insieme ad altri cinque o sei, non ricordo bene, ma di colpo il teatro fu pieno. O meglio, le balconate furono piene, perché in platea le persone arrivavano un po’ alla volta, con molta calma, a parte quelle cinquanta o sessanta ragazze che avevano occupato in un baleno le prime sei-sette file di posti. L’Adriano era ancora più bello visto dall’alto, e noi eravamo sistemati sul lato di destra guardando il palco, forse sul terzo ordine di balconate, comunque nel punto più alto e praticamente a picco sul palcoscenico. Maurizio mi indicò che in platea stava prendendo posto il cantante dell’Equipe 84, quello alto e secco che avevamo visto solo in fotografia, e mi fece notare – finalmente c’era qualcosa che invidiava anche lui – che aveva una camicia ed un paio di pantaloni esageratamente stretti, ed i pantaloni erano per di più a righe e quindi sembravano ancora più stretti. C’erano anche gli altri tre dell’Equipe ed io dissi a Maurizio che sapevo che stavano a Roma perché guardando la pagina degli spettacoli del giornale qualche giorno prima mi era capitato l’occhio su di un annuncio che diceva “Stasera il complesso Equipe 84”, ma non mi ricordavo a quale posto si riferisse, forse era il Piper Club, questo nuovo locale di cui molti parlavano e di cui avevamo letto sulla rivista “Big”. Maurizio mi disse che secondo lui il Piper aveva ormai chiuso la stagione, e che a giugno la gente voleva ballare all’aperto. Lui aveva due amici che erano stati al Piper e gli avevano detto che era bellissimo, e che si poteva ballare - invece che con i dischi - con i complessi che suonavano sul palcoscenico le canzoni dei Beatles, che c’erano delle pedane luminose sulle quali si poteva salire per ballare, che dietro ai complessi c’era una cosa strana, tipo un quadro, ma fatto con delle foto ingrandite di labbra e occhi di ragazza con pezzi di ferro e di legno e anche parafanghi di automobili e tubi strani, che le luci si accendevano e si spengevano, che la musica era a volume altissimo e che tutte le ragazze avevano le gonne cortissime. Maurizio diceva che questi suoi amici, secondo lui, erano un po’ pallonari, cioe’ raccontavano cose non vere, però eravamo tutti e due incuriositi, e decidemmo che quando avrebbe riaperto la scuola ci saremmo andati un pomeriggio con i compagni di classe. Mentre parlavamo del Piper le luci in sala si spensero e cominciò lo spettacolo. Sapevamo che prima dei Beatles ci sarebbero stati altri cantanti, ma non mi ricordo bene chi ci fosse, forse i New Dada, che erano simpatici e avevano il cantante con i capelli biondi, ma noi eravamo tutti impazienti di sentire loro e quando arrivò Peppino Di Capri ci furono pure diversi fischi, anche se Peppino a me stava simpatico, perché si muoveva come se avesse un tremito spastico nella parte superiore del corpo e si teneva stretto in mano e vicino alla bocca quel grosso microfono quadrangolare come se fosse un grosso pezzo di torta da addentare. Poi il palco rimase vuoto e venne qualcuno ad annunciare: “Signore e signori, The Beatles!”. E lì venne giù il teatro.
Le ragazze cominciarono a strillare, ed il loro strillo era uno strillo di ragazze, aveva cioè un suono (un timbro, avrei detto qualche anno più tardi) molto acuto, come se fosse un fischio elettrico, a volume altissimo. Anche io e Maurizio cominciammo a strillare, ma ci veniva male, ero uno strillo da maschi, con un suono un po’ ridicolo, e ci stancammo subito perché poi cercavamo di ottenere un suono (un timbro, avrei detto qualche anno più tardi) simile a quello delle ragazze, ed era chiaramente impossibile, e subito ci andò via la voce. John Lennon era proprio sotto di noi, aveva il cappelletto scuro che Maurizio aveva comprato a via Sannio a Febbraio ed una faccia molto simpatica, come se dovesse farti uno scherzo da un momento all’altro, mentre Paul McCartney stava all’altra estremità, con quel suo basso strano che sembrava un violino un po’ allungato e che non capivo come facesse a suonarlo al contrario, nel senso che io le dita sulla tastiera della chitarra Eko che mi padre mi aveva regalato a Marzo per il mio compleanno le mettevo con la sinistra, anche quando cercavo di fare le note del basso di And I Love Her , mentre lui ci metteva le dita della mano destra, e per me era inspiegabile, non concepivo il fatto che esistessero i mancini anche sulla chitarra. George Harrison stava più o meno al centro, qualche volta andava vicino a Paul a fare il coro, aveva un’altra chitarra appoggiata su una specie di trespolo vicino alla batteria e mi sembrava molto elegante mentre suonava, e lo amai molto soprattutto quando attaccò l’inizio di Ticket To Ride : una vera magia! In mezzo a tutti e incastrato quasi tra gli enormi amplificatori ai quali erano attaccati i fili delle chitarre e del basso c’era Ringo Starr, con i suoi splendidi capelli quasi biondi che si agitavano in continuazione e con un sorriso molto accattivante, che picchiava con le bacchette sui piatti e sui vari tamburi della batteria, compreso quello più grosso (quello che si suonava con il piede destro, e non tutti lo sapevano e quando lo dicevi, soprattutto alle ragazze, facevi un gran figurone) dove c’era questa scritta misteriosa: “Ludwig The Beatles”, e né io né Maurizio sapevamo chi fosse mai questo Ludwig, perché né io né lui conoscevamo qualcuno che suonava la batteria, in grado quindi di spiegarci che il signor Ludwig era quello che fabbricava le batterie, ne più ne meno come il signor Eko fabbricava le chitarre.
Insomma, finalmente erano lì. Era quasi incredibile, e anche senza voce Maurizio ed io continuavamo a strillare ogni volta che incominciavano una nuova canzone: Please Please Me, She Loves You, A Hard Day’s Night, I Feel Fine, Baby’s In Black . Poi fecero quella che canzone che amavo tantissimo, ed iniziarono John and Paul, questa volta vicini, allo stesso microfono a cantare: “Am a luuuuser, am a luuuuser…….”. Era I’m A Loser , ed io l’amavo perché oltre ad essere bella era anche una canzone che i giornalisti avevano detto che per le parole avevano subito l’influenza di Bob Dylan, il quale aveva scritto delle canzoni bellissime che noi amavamo molto, anche perché avevo letto la traduzione delle parole delle sue canzoni ed erano fantastiche, e avevo visto su una rivista la riproduzione di un ritaglio di un giornale inglese che diceva: “Beatles say: Dylan shows the way” e per me questi due nomi accostati era una cosa bellissima, perfetta, come inzuppare il ciambellone nel caffellatte o mangiare pane e frittata alle undici del mattino.
I Beatles erano vestiti di nero, con l’abbottonatura delle giacche altissima, come se fosse un maglione a V, camicia bianca e cravatta nera, avevano gli stivaletti come ci aspettavamo che avessero e facevano veramente una bella figura, insomma, erano molto belli visti tutti insieme e sembravano comunque divertirsi molto nel suonare, si guardavano spesso, guardavano spesso Ringo, e ad un certo punto gli fecero cantare una canzone tutta a lui, I Wanna Be Your Man, e ogni volta che finivano si inchinavano profondamente rivolti verso la platea, come per ringraziare il pubblico. Ma eravamo noi che li dovevamo ringraziare per essere lì, e lo facevamo nell’unico modo possibile, urlando ed applaudendo in continuazione. Maurizio ed io ci guardavamo e ridevamo, agitando le braccia e tutto il corpo in generale, e ad un certo punto ci fissammo sbigottiti perché cantarono una canzone che non conoscevamo, tutta strana con un inizio di accordi di chitarra saltellanti (in levare, avrei detto qualche anno più tardi), la cantava Paul e solo qualche settimana dopo scoprimmo che era She’s A Woman , il nuovo quarantacinque giri dei Beatles, che sarebbe uscito con in copertina una loro foto in cima al Duomo di Milano.
Poi lo spettacolo finì, dopo soltanto mezz’ora dall’inizio, i Beatles si inchinarono per l’ultima volta in un rumore assordante ed abbandonarono il palcoscenico dell’Adriano. Eravamo tutti sudati, le ragazze nel nostro palchetto e in quello vicino piangevano, io pensavo che piangevano di gioia perché gioia era quello che avevamo provato ascoltandoli. E anche quando scendemmo le scale tutti insieme, anche quando uscimmo sfiniti ed afoni su Piazza Cavour ancora piena di sole, anche quando salimmo sull’autobus per tornare a casa con ancora nelle orecchie il fischio elettrico delle ragazze e le urla di Twist And Shout , eravamo pieni di gioia. E negli anni a venire, per tutte le volte che avrei ascoltato i Beatles, da una radio accesa nel porto di Corfù o nella stazione della metropolitana di Parigi, in un bar di Tirana o in un negozio di Dubrovnik, sul taxi turco che mi portava ad Efeso o facendo colazione in un albergo di Vienna, o semplicemente a casa, in un giorno di pioggia o in una notte stellata d’estate, avrei provato sempre la stessa sensazione: gioia. Non felicità, ma gioia, una gioia che si diffonde immediatamente in tutto il corpo. Pura gioia.

Luciano Ceri


(il brano è Rock&Roll Music - Teatro Adriano Roma 27/6/1965)

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