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Oasis – Don’t Believe the Truth
(Sony)
www.oasisinet.com



Ci risiamo. Ogni volta che gli Oasis si trovano a promuovere un album in uscita, Noel Gallagher parla male del disco precedente e assicura tutti che il nuovo sarà il pieno ritorno alla forma atteso in Inghilterra da quasi un decennio. E’ il copione che si ripete dai tempi di Be Here Now, forse l’album più indicativo di sempre nell’illustrare gli effetti negativi dell’abuso di cocaina sulla qualità delle composizioni. E’ da allora che la stampa inglese chiede ai Gallagher un “ritorno alla forma di Definitely Maybe” più che idee nuove, stranissimo metro di giudizio per due figure pubbliche viste in patria più come calciatori – con tutto un corollario di tifo da stadio a circondarli – che musicisti. Ogni volta arrivano puntuali anche le notizie di una gestazione travagliata, magari condita con i soliti litigi fra i due Gallagher: in questo caso non sono trapelate voci di risse ma le sessioni di registrazione sono state azzerate due volte e la band ha dovuto scegliere in mezzo ad un totale di oltre sessanta pezzi. Chiusi in studio con i Death In Vegas al primo giro, alla ricerca della fusione fra rock ed elettronica che non è mai stata nelle loro corde, e poi da soli nel tentativo di ricatturare quel feeling semplice ma incisivo dei primi due album, gli Oasis sono riusciti a partorire qualcosa sì superiore alle ultime uscite, ma ancora pienamente deficitario. Noel tiene sempre a ricordarlo nelle interviste, la band adesso è una democrazia e tutti hanno diritto di scrivere canzoni, precisazione ironica visto che le peggiori della raccolta sono le sue. Quello che un tempo era riverito come il miglior compositore inglese non riesce a tirar fuori un pezzo che sia convincente, da Mucky Fingers (si è scritto e detto che somiglia a I’m Waiting for the Man dei Velvet Underground: peccato che non ci sia traccia dell’energia sferragliante dell’originale…), a The Importance of Being Idle, che ripesca gli Smiths senza un decimo del loro romanticismo disperato, o Keep The Dream Alive, inno da stadio che potrebbe essere degli U2 più banali. Per fortuna si salvano gli altri, anche se non sempre. Andy Bell mette un po’ di classe residua in Turn Up the Sun, potente e maleducata come sapevano essere i vecchi pezzi di Noel, Gem Archer contribuisce con il vago sentore psichedelico di A Bell Will Ring e, udite udite, Liam Gallagher mette a segno i suoi primi pezzi interessanti con Guess God Thinks I’m Abel e The Meaning of Soul, la prima ballad lennoniana costruita su un crescendo, la seconda rock’n’roll acustico e sguaiato che rimanda a glorie come La’s e Small Faces. Quattro pezzi su undici, che com’è logico non riescono ad elevare più di tanto le quotazioni di un album piatto e ripetitivo. Da troppo tempo gli Oasis si adagiano su un mero riciclaggio di sonorità – Beatles, Jam, la prima British Invasion e un pizzico di punk – che esistono da troppo tempo per essere semplicemente riprese e ricucite insieme. Se proprio in questi giorni i White Stripes dimostrano, con un grande album, come si possa suonare tradizionali e senza tempo, non esiste proprio alcun motivo per cui gli Oasis debbano esistere ancora.

Bernardo Cioci

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