. David Bielanko - Marah

INTERVIEW

David Bielanko dei Marah
29 aprile 2006

Sono le 22.30 al Tunnel di Reggio Emilia. I Marah sono appena arrivati dal ristorante dove, per loro stessa confessione, non hanno saputo resistere alla tentazione di mangiare quanto più parmigiano reggiano possibile. La band è alle ultime date di un tour che li ha tenuti lontani da Philadelphia, loro città natale, per 6 mesi. I volti tradiscono una certa stanchezza, ma la tempo stesso è palpabile il grande affiatamento tra i cinque musicisti che questi mesi di tour hanno consolidato. Il loro quinto album, ‘If You didn’t Laugh, You’d Cry’, uscito sul finire del 2005, è una ventata di aria fresca nel panorama rock americano ed ha dato visibilità alla band che può annoverare amicizie importanti come quella di Steve Earle che li ha scritturati per la sua etichetta discografica - la E-Squared - pubblicando il loro secondo album ‘Kids In Philly’ del 2000 o del Boss che ha cantato nel loro terzo lavoro ‘‘Float Away With The Friday Night Gods’ del 2002. Giusto il tempo che arrivino nei camerini le birre ed una bottiglia di Jack Daniels che David Bielanko, cantante, chitarrista e compositore della band mi invita a raggiungerlo fuori, nel parcheggio del locale, per poter chiacchierare all’aria aperta.

Il vostro ultimo album è dominato da due componenti: la freschezza ed il rimando costante alla grande tradizione rock’n’roll americana. Come siete riusciti a creare quest’alchimia?

Nella band siamo tutti fan di qualche band. Amiamo suonare, ma prima di tutto amiamo la musica. ognuno di noi ha gusti, preferenze musicali diverse che porta con sé: dai Bad Brains a Frank Sinatra. Tutto questo entra nella sala prove. Per questo disco ci siamo detti: “Suoniamo solo quello che ci piace e registriamolo il più velocemente possibile in diretta, senza sovrancisioni.” E’ stata la prima volta anche per noi, ma credo che sia l’unico modo per tentare di catturare l’essenza del rock’n’roll, che è poi il nostro desiderio più grande.

Cos’è per David Bielanko l’essenza del rock’n’roll?

E’ l’energia che c’è dentro un brano di Little Richards… è il caos… è come stare al timone di una nave che potrebbe affondare da un momento all’altro, ma che continua a solcare il mare. E’ essere spontanei ed accettare quello che viene. Prendi il nostro ultimo disco: lo abbiamo registrato in uno studio molto alla moda (usa il termine “posh”) di New york, ma di fatto ci siamo limitati a suonare in diretta tutti insieme nella sala con i microfoni accesi. Niente tecnologia; solo noi e gli strumenti. Se la canzone veniva, fantastico, altrimenti passavamo ad un’altra song. Alla fine è stato semplice, abbiamo dovuto solo prendere le canzoni migliori e metterle sul disco.

Questo modo di registrare mi ricorda quello di Neil Young: seguire l’urgenza di comunicare senza troppo badare alle imperfezioni; fermare l’attimo.

Gli errori danno personalità alle canzoni. Potresti mai togliere le imperfezioni da un disco di Bob Dylan? Perderesti l’aspetto umano, personale, la vera essenza della canzone. Noi siamo orgogliosi del nostro disco perché ci riconosciamo in esso, ci rappresenta. E’ come una fotografia: noi nell’estate del 2005. l’album è “l’opera d’arte”, ma il gruppo, “l’artista”, continua a suonare, a girare il mondo ad essere a Londra, in Serbia, a Chicago o qui in Italia… questi ruoli devono essere accettati e rispettati.

Consideri i Marah degli “out-sider” del rock’n’roll?

Assolutamente sì. Ci sentiamo così. Credo che le migliori rock band si siano sempre sentite un po’ degli out-sider: pensa ai Ramones. Noi non abbiamo mai ricercato la fama, il successo. Ci sono persone in America che si stupiscono del fatto che i Marah non siano ancora famosi e conosciuti come meriterebbero. Questo ci lusinga, ci fa piacere, ma noi sappiamo il perché: non abbiamo mai ricercato quell’obbiettivo, non abbiamo mai pensato di fare qualcosa alla moda. Non saremmo noi. Ci siamo chiesti in passato se era forse il caso di tentare una strada più commerciale, ma la risposta è sempre stata: “no”. Siamo rimasti fedeli a noi stessi. Credo che la gente, il pubblico, sia molto più intelligente di quanto si creda e si accorga se una band è sincera e vera oppure no. Noi ci sentiamo come i Faces: una band non certo alla moda, ma dannatamente rock.

Siete di Philadelphia, siete due fratelli in una band che suona rock’n’roll… non sentite su di voi se non il peso, la responsabilità di portare avanti la tradizione del rock?

La mia coscienza tende a tenermi lontano da questo tipo di responsabilità, ma in un certo modo, pensare a questo ci fa andare avanti e ci fa continuare a suonare per provare a noi stessi quanto valiamo. A noi interessa scrivere buone canzoni, cercare di migliorare sempre ed ottenere con esse il rispetto di quei musicisti che amo. Sapere di scrivere canzoni e che queste possano toccare l’animo ed i sentimenti di altre persone nel mondo, è un bel traguardo per una garage band come i Marah. Ieri eravamo a Zagabria davanti a trecento persone che erano lì per noi, per la nostra musica… sentire la loro vicinanza non solo fisica, il feeling che si creava tra noi e loro è stato fantastico. E’ qualcosa che ripaga di tutto il sudore e la fatica, che ti fa sentire migliore.

A proposito di tradizione rock: cosa ne pensi dell’ultimo album di Bruce Springsteen?

Credo che il Boss mi debba dei soldi…(ride) alcune delle sue ultime canzoni mi ricordano molto il nostro primo album…ma al di là di questo, Bruce è un grande artista. Ero molto scettico riguardo a questa nuova uscita discografica, ma una volta ascoltata penso che sia un buon album che dà a molti l’opportunità di conoscere forse per la prima volta un patrimonio musicale americano ancora troppo poco noto. Al tempo stesso ti posso dire che è Bruce è un tipo furbo (usa il termine “smart”); credo che sia un ottimo manager di sé stesso e che ci pensi bene prima di pubblicare un album. E’ per questo che passa molto tempo tra un suo album e l’altro, forse troppo. A me piace più la spontaneità, come quella di Neil Young, che pubblica un disco dopo l’altro: uno bello, uno brutto, un capolavoro… andare avanti questo è importante. Pensa a Lou Reed: anche lui ha pubblicato dei brutti album, dischi di cui lui stesso adesso parla male, ma che nel momento in cui li ha scritti, sentiva il bisogno di pubblicare. Bruce è stato più riflessivo, più cauto. Questo gli ha dato il vantaggio di poter dire oggi di non aver fatto alcun passo falso, ma la tempo stesso posso affermare che il suo unico rammarico è di non aver pubblicato tutte le canzoni che ha scritto quando le ha scritte.

Cosa ne pensi dell’ondata di artisti che ha sentito il dovere di schierarsi politicamente e di utilizzare la musica come veicolo per far conoscere le loro idee? Pensi che nel 2006 la musica possa essere ancora lo strumento per promuovere il cambiamento?

Devo essere sincero: non lo so. Il rock’n’roll non è più un “ragazzino”. Si fatto grande; fa parte della società. Invecchierà con essa, e, probabilmente, non morirà mai, ma si è lasciato usare troppo, ha perso credibilità a tal punto che c’è una generazione che non sa cosa sia il rock’n’roll. Questa generazione non ha colpa: per loro i Coldplay sono “cool” e va bene così, ma non sanno quanto “hot” fosse Little Richards… a noi non resta che riderci sopra e continuare a suonare.

Jacopo Meille

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