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Intervista a Michael McDonald

1998. Un brillante A&R dell’Universal inglese ha l’idea di affidare alla voce nera del soul man bianco americano Michael McDonald, che il pubblico adulto ricorda alla guida dei celebri Doobie Brothers nei tardi anni settanta, il catalogo della casa discografica di Detroit per nuove versioni dei brani più celebri. McDonald, agiato compositore sulla scia del miglior Bacharach e compagno d’armi di Donald Fagen degli Steely Dan, accetta la sfida e si lancia in un trittico che oggi si realizza con Soulspeaks, un album ricco di sorprese.
“In fin dei conti l’idea della Motown come etichetta è ancora quella di una grande compagnia con una sua logica. Io - sin dai tempi di “Livin’ On The Fault Line”(1977) mi sono impegnato a mantenere vivo un catalogo straordinario. All’epoca cantavo Little Darling I Love You e le mie canzoni - come You Belong To me - volevano riproporre quel suono aggiornato allo stile dei settanta”.
Chi è Michael McDonald è semplice dirlo, giusto uno dei più completi compositori di white soul dei settanta, che ha vissuto e vive di rendita da poche, fortunate, stagioni. Un blue eyes soul man contraltare pop del Van Morrison di WaveLenght ed Into The Mystic, non a caso ripreso da Mc Donald in Soulspeaks. “Una dichiarazione di pace?” gli chiedo a proposito di quella canzone “No! Solo una dichiarazione di rispetto verso il più grande soul singer bianco degli ultimi 40 anni!”, risponde orgoglioso (i due incidono per la stessa multinazionale per inciso).
Nel raccontare i suoi trascorsi McDonald mostra essere molto orgoglioso dei suoi esordi oscuri quando, perso nella provincia americana del Missouri, si esibiva in nighclubs e piccoli locali in una vera dance band ispirata ai britannici Average White Band.
“Fu una avventura formidabile, devi caricarti di energia in luoghi dove nessuno si cura di te. Allora capivi che dovevi scegliere bene le canzoni da suonare perché esistono brani - come quelle in fin dei conti che ho scelto per questo album - che ti stendono con una semplicità che va oltre le parole e le melodie. Canzoni con un impatto una spanna al di sopra del resto!”. Un pò l’impatto dei Doobies che nella loro lunga carriera portarono alla luce personalità uniche come il solista Jeff Baxter, in grado di sostituire la mancanza autorale di un rocker come Tom Johnston in o più giovani musicisti come John McFee ex Clover (che in una breve parentesi inglese accompagnarono il debutto di Elvis Costello) o ancora il solidissimo bassista Tiran Porter. “I migliori Doobies sono quelli della tourneè di Minute By Minute - dice McDanald - due neri (Tiran Porter e Cornelus Bumpus al sax e all’organo), due batteristi, due chitarrista (Pat Simmons e John McFee), i Memphis Horns. Suonavamo concerti di due ore e mezzo senza tregua“. E continua “Fu una stagione straordinaria con l’impegno antinucleare (No Nukes) e dischi bellissimi di molti artisti con cui collaborammo come Carly Simon, la nostra miglior partner, una donna bellissima con la quale realizzammo It Keeps You Running (per l’album Another Passanger). Fu una grande incisione, con lei lavorammo senza mai incontrarci, tutto per posta. Non c’era internet, tutto era più lento. Intanto- conclude per ricollegarsi al presente - in Soulspeaks sono tornato a quelle atmosfere live in studio. L’ album è tutto suonato dal vivo mentre quelli prima erano più virtuali. Questa volta ci siamo chiusi tutti nella stessa stanza e non si usciva se il brano non era concluso!”.
Con Michael parliamo adesso di influenze “ Ray Charles, Burt Bacharach Ashford & Simpson, la tradizione Gospel, Rodger & Hammerstein per il loro amalgama di scrittura. Devo ammettere di avere avuto dei grandi privilegi in un business da cui non mi attendo più nulla e che non capisco da molto tempo. Devo però dire ai più giovani che bisogna avere sempre entusiasmo nei cambiamenti e nelle opportunità creative che comunque la musica offre. Io ho sempre lasciato che gli A&R facessero il loro lavoro e nonostante rispetti. I magazines musicali non li leggo e non mi curo di cosa scrivono (d:“cosa legge?”.r: “Riviste di golf!“). Purtroppo - commenta - la musica di oggi si è orientata verso il marketing perdendo il senso dell’artisticità e artisticità per me significa anche interpretare musica altrui”.
La curiosità ci spinge oltre: è sua la voce che firma il chorus che dà il titolo del terzo album degli Steely Dan, Pretzel Logic. Una voce fortemente riconoscibile che dal vivo - nella breve ultima tournèè di Fagen & Becker versione settanta - faceva subito scattare in piedi i fan.
“Steely Dan - ride - me lo aspettavo!… - dice piacevolmente colpito dalla richiesta -. Per me fu come passare da questo mondo al più lontano pianeta del sistema solare. Era l’ottobre 1974 se non ricordo male, c’era stata una evoluzione della musica disco, che fino ad allora era musica suonata, Walter e Donald sapevano come unire lo stile dei grandi autori di Broadway dei tardi cinquanta a quel suono – proprio mentre i dj stavano cominciando ad essere le star delle serate - così tutto d’un tratto mi trovo in una band che sa adattare quel sound a una canzone country & western. Fu uno strano cambiamento. Ancor più strani erano i personaggi che mi giravano intorno: il chitarra Danny Dias, celebre perché non tirava mai su le corde (no bending), Jeff Baxter (oggi consulente spaziale della Nasa) chiamato solo per tirare su le corde (bending), Jeff Porcaro che inalava colla (!) e suonava come non ho mai visto nessuno fare e un cantante, David Palmer, chiamato a cantare al posto di Fagen che aveva una voce che non piaceva ai discografici ma che poi però veniva sempre poi messo a sedere e sostituito da Donald stesso. Una gabbia di matti supertalentuosi, sempre capaci di citazioni e riferimenti altissimi, una specie di gara senza fine in studio e on the road!. Un anno dopo ero però già con i Doobies, inizialmente in prestito. Walter e Donald infatti quando mi incontrano me lo dicono sempre: “Hey Mike, ricorda che sei in prestito!…”
La storia di McDonald, distillando il su racconto in poche parole, è, insomma, quella tipica di chi ha realizzato l’American Dream. Dalle stalle alle stelle. Ma non c‘è il rischio che lo stato attuale della musica ricacci indietro tale sogno? “Devo però dire che mi sembra ancora straordinario pensare che io ce l’abbia fatta nella vita facendo ciò che più mi piaceva - mi dice mentre scorriamo insieme una lunga lista di nomi noti e meno noti della sua generazione -. Gente come James Taylor, Little Feat, Dr. John oggi non sarebbero potuti esistere sul mercato, artisti con cui dividere lo studio e le idee”. Ascoltarlo così pacioso e sicuro delle sue interpretazioni attuali lo eleva a un ruolo di saggio oltre i tempi moderni. “You don’t know me, Baby you can change my mind e il suo lick di chitarra che avevo in testa da sempre, la leggendaria Living for the city, oppure For Once In MY Life che Stevie cantava a soli 19 anni sono dei punti d’arrivo per un crooner come me”, dice soddisfatto. Si configura così l’idea di un disco che lascia all’’ascoltatore la possibilità rivivere una tradizione non ancora passata e riportarla in vita nelle grandi canzoni. “Se ci sono riuscito - aggiunge - vuol dir che il tempo speso è stato speso bene“.
E ci salutiamo con una sua ultima riflessione: “Pensare chi i Doobies in fin dei conti hanno spinto i limiti del pop verso atmosfere e armonie più jazzate facendole accettare nelle grandi arene è ancora oggi un mistero per me, surreale!… soprattutto vedendo e ascoltando cosa si ascolta e si vede oggi in quelle stesse arene. E, ti confesso, anche Mtv è sempre stata un mistero per come sia riuscita ad influenzare la gente. Sono le persone giovani così stupide? Mi sono chiesto… Noi eravamo come era stato venti anni prima Duke Ellington, ambasciatori di un suono sofisticato presso le masse. Una band capace di suonare tutto, con due neri dentro, ma che poteva improvvisare un breakdown bluegrass per poi passare tranquillamente a tutt’altro. Me ne indichi una fra le ultimissime leve?”.


Ernesto de Pascale


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