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Solomon Burke - Like a Fire
(Shout/Good Fellas)

Fedele alle sue radici di ispiratore ed iniziatore del country soul prima ancora di Ray Charles, Solomon Burke torna con un album dai differenti mood, amalgamati dalla sua voce, da quel timbro pastoso, basso, sicuro come un siluro che quando ti tira su spinge all’estasi. Burke può, grazie a questa dote, cantare tutto il cantabile e dare un senso a qualsiasi parola e concetto. Meglio ancora quando gente del calibro di Eric Clapton - che firma il brano che dà il nome al disco - Ben Harper, Jesse Harris, Keb Mo, Danny Kortchmar si mettono a sua disposizione. Certo è che scrivere per Burke è un piacere, ogni parola è snocciolata con smerigliate sfumature di colore e metrica, di melisma e sentimento. Nel dettaglio, Una generale ambientazione roost anima Like a Fire; merito di questo è da ascrivere al batterista Steve Jordan, eccellente produttore che già al fianco di Bob Dylan, Keith Richards, John Mayer o Stevie Wonder ha saputo mantenere le redini. Ed infatti una tensione generale anima il disco ancor più che nel precedente Nashville, un album forse troppo giovato sulla voce di Solomon. Qui infatti tutto è ben bilanciato e ben presente e lo stesso Jordan con tre brani ben a fuoco mostra la strada agli altri autori. In Ain’t That Something il batterista offre a Solomon su un piatto d’argento un brano che non sarebbe sfigurato in Some Girls degli Stones e il cantante nero lo fa suo con una classe e una eleganza che Jagger deve ancora continuare a studiare, giusto per non restare indietro.Harper duetta con The King of Rock & Soul in A Minute to rest and a Second to Pray e le generazioni del soul vengono in primo piano a diretto confronto, una concetto e una idea questa cara al cantante.
Burke, anche in Like The Fire, come un vero diavolo famelico, dal canto suo tira su i pezzi, prendendoli dalla nuda terra ( la composizione ) per sacrificarli sull’altare del practice that you preach ( in altre parole canti come magni! ). Burke ci porta quindi in un mondo fra sacro e profano, fra luci ed ombre ma sempre pronto a tirarci un calcio e a farci vedere la luce. In questo fare musicale e vocale ( si ascolti The Fall ) il settantaduenne cantante mostra tutta la sua grandezza e magnitudine: come un pastore ( è un pastore! ) accoglie le sue pecorelle e parla a loro per figure retoriche - e questo giustifica l’interprete Burke - e ogni canzone è una parabola. In questo gioco sottile e in fin dei conti complesso - scendere di gusto è questione di un attimo - Burke è un maestro e tutti dovrebbero imparare da lui ed è forse uno dei più grandi conoscitori del genere canzone, di cosa una canzone può dare ad un cantante. Pensateci un attimo, non è cosa da poco: non si tratta solo di capire se quella canzone è “giusta” per te ma se la sua strada, il percorso di poi, la reason why che ci sta alle spalle, cosa potrebbe dire interpretarla dal vivo e molte altre piccole grandi cose. Così facendo Solomon ha creato uno stile nel genere, una unicità che in fin dei conti va indietro alle sue radici e poi avanti tutta nel tempo - si pensi alla sua Proud Mary per esempio - e Burke sa perfettamente che porterà questo trick con se, fino alla fine. Così, ascolto dopo ascolto Like a Fire sale dentro fino a che non ti brucia, appunto. E Solomon, parola di chi ci ha lavorato accanto, cerca un po’ di dolore, di compassion, di compenetrazione, un po’ di peccato perché di tutta la sua storia, personale e musicale, il momento migliore e catartico è stato quando “ha visto la luce“. E Like a Fire ci insegna che ci sono molte strade per scendere ma una sola per salire su.

Ernesto de Pascale

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