.

Demis Roussous - Demis
(Discograph)

Tralasciamo i 50 milioni di copie di dischi venduti con The Aphrodite’s Child. Tralasciamo anche il loro 666 l’album doppio del 1971 che fece gridare al capolavoro nell’ampia scena del prog europeo continentale. Mettiamo pur da parte lo status da pop star dell’Eurovisione per affrontare a mente serena ( non facile, diciamolo ) un disco che ruota intorno a una voce, a quella voce. Che voce !
A scanso di equivoci, diciamo subito che, Demis Roussous non aveva certo bisogno di questo disco.
Azzardiamo anche che, piuttosto e sottolineiamo forse, è più il nuovo pubblico a poter godere della bontà dell’ opera in questione.
Il cantante, voce del trio greco di cui faceva parte anche Vangelis Papathanassiou, re delle colonne sonore, e che nel maggio 1968 segnò gli scontri parigini con la loro Rain & Tears, riparte da lontano, dal suo stile interpretativo esotico - se così si può definire il timbro e l’accento del nostro - e dalla sua percezione egea della musica rock e pop dei tardissimi sessanta, anni a cui Demis resta indelebilmente legato.
Dobbiamo dare atto al produttore Marc di Domenico ( Henry Salvador ) di aver convinto il panzuto multimiliardario a rimettersi in gioco con un album dai toni molto roots e blues che affonda nel tardo beat, convincendolo a tenersi lontano dalle pericolose produzioni mega di una volta, sfornando così un cd al passo con i tempi e senza eccessive prete.
Di Domenico ha pensato bene di fornire a Roussous pane musicale per i suoi denti, affidandolo alle cure di un team e di un paio di band che si alternano e si completano accompagnandolo per quasi tutto l‘album, The Dirty Feels e Little Barrie, entrambe tese a non perdere una certa rilassatezza e certe pieghe rock di una volta ( Spoiled Brat ).
Nell’album svettano le ballate che chiudono in blues ( What They Say, Hit Me, Help Me ) e quando Demis si misura con la storia, come quando reintepreta una delle prime canzoni che rese celebre Randy Newman come autore - I’ll Be Home, in Italia la cantò Mina - o, come nell’incipit di September, quando tira fuori i suoi toni ciondoloni, quelli che esaltano le sfumature delle sillabe per farci capire in 2.44“ quali siano le sue migliori caratteristiche vocali .
Curiosa e inattesa la lunga ( nove minuti ) Who Gives a Fuck, mini operina finale che ci ricorda i fasti indelebili del rock del mediterraneo che pare messa lì per farci inanellare una serie di supposizioni sul futuro.

Ernesto de Pascale


tutte le recensioni

Home - Il Popolo del Blues

NEWSLETTER

.
.
eXTReMe Tracker