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Neil Young
Presto sul mercato tre attesissime ristampe


Mi è stato proposto un pezzo su Neil Young. Il presupposto nasce da tre ristampe su cd che dovrebbero essere imminenti, l’attesissimo On the Beach (capolavoro massimo del rock e mai pubblicato su supporto digitale, esisteva addirittura una petizione online che chiedeva di pubblicarlo!), il “minore” American Stars’n’Bars (ma neanche tanto, visto che contiene Like a Hurricane) e il deludente Re-ac-tor, che ebbe l’onore di iniziare una serie quasi decennale di brutti dischi. Questo può essere lo spunto per qualcosa di diverso dalla solita biografia ragionata, che in fondo andrebbe semplicemente a sistemarsi accanto alle altre diecimila, e il punto a cui si vuole arrivare è, suppongo, più sottile ed intrigante.
Partiamo dalle considerazioni banali. Di tutti i “grandi vecchi” del cantautorato americano, Neil Young è uno dei più conosciuti e amati. Di più, come Bob Dylan, altro grandissimo a cui spesso viene paragonato per consistenza creativa e profondità d’opera, Young è riuscito a gestire una carriera quasi quarantennale, arrivando persino a smerciare parecchie copie dei propri dischi recenti a ragazzi sotto i 25 anni, un target ben diverso dalla figura del cinquantenne nostalgico (=luogo comune) involontariamente presentata dai recensori che si occupano di certa musica. Ecco quindi il punto della questione: cosa ha da dire uno come lui ai ragazzi? Esiste ancora un ponte, evidente come lo era prima, fra la sua musica ed il rock di oggi? Sarei tentato di rispondere sì a priori, in fondo io 25enne sono cresciuto insieme a tanti suoi dischi, ma decido di utilizzare un modus operandi appena più oggettivo ed empirico. Scelgo dunque di iniziare la mia indagine dando un nuovo ascolto ad uno degli ultimi capolavori, quel Ragged Glory che all’inizio del decennio scorso lo riportò ad alte vette creative. Gli anni ’80 erano stati un periodo un po’ strano per lui, fatto di sperimentazioni confuse con sintetizzatori e tentazioni rockabilly che avevano solo portato ad un certo scherno da parte della critica, e dischi come Freedom o Ragged Glory non fecero altro che riportarlo a quella furia, urbana e rurale al tempo stesso, forte e rassegnata, che i suoi fan si aspettavano dalla sua chitarra e dalle sue canzoni. Non è certo una scelta a caso, visto che ho imparato a conoscerne l’opera proprio tramite quel disco spigoloso ed elettrico, quasi un battesimo inaspettato a tutto il grunge che sarebbe esploso di lì a poco. Ecco l’ho scritto, grunge, è un pensiero che viene naturale ascoltando le chitarre affilate di F*!#in’ Up e Love to Burn, ma detto per inciso c’è gente che sulla musica di Young ha costruito intere carriere già parecchi anni prima, se è vero che gruppi come Dream Syndicate, Long Ryders e Buffalo Tom non ne hanno mai nascosto l’influenza. Non è difficile trovare testimonianze in merito, ma c’è stato un periodo in cui nei college – all’epoca il nuovo rock statunitense proveniva in larga parte da lì – si girava anche con Zuma sottobraccio, e questo aveva un notevole peso quando qualcuno di quei ragazzi decideva di prendere una chitarra in mano e creare qualcosa di proprio. Preso quindi per buono che gli anni ’70 siano stati tagliati in un “prima” ed un “dopo” dal punk e da tutta la successiva ondata new wave, è anche innegabile che Young (come Dylan, ancora lui, che però ha mantenuto sempre un’aura superiore, distaccata, laddove quella di Neil si è sempre assestata su una benevola affabilità) sia riuscito a mantenere una forte influenza anche nei confronti di quei giovani tanto hip e riottosi. Volete una veloce riprova? Non dev’essere un caso che i Sonic Youth, indubbiamente un simbolo della generazione tirata su dopo il ‘77, abbiano accettato di buon grado il ruolo di supporter durante il tour di Ragged Glory. A tal riguardo le recensioni raccontano di un gruppo che si divertiva a confondere le acque, a volte ingaggiando delle vere e proprie guerre con la platea, senza dubbio poco abituata a sentire strumentali atonali che durano mezzora, ma si trattò più che altro di un esperimento fatto per giocare col più grande pubblico della loro vita, dato che ad ogni occasione i quattro giovani sonici non mancavano di sottolineare la loro stima verso Neil ed i suoi compagni di gruppo.
Mi rendo conto di aver pescato bene e decido di rimanere su quest’ultima fase di carriera, in fondo sono questi i suoi dischi che cercano di dialogare con persone più giovani. Metto subito Harvest Moon e Mirrorball. Quest’ultimo è registrato con i Pearl Jam in veste di backing band – si parlava di generazioni giovani? – e curiosamente è quello che suona più datato, come se gli allievi abbiano voluto applicare la lezione troppo alla lettera, dando al maestro un tappeto sonoro un po’ troppo riverente e radicato nel passato. Il risultato sono pezzi come Downtown e Peace & Love, che si attorcigliano un po’ su se stessi e finiscono per diventare quasi delle parodie; Harvest Moon, per parte sua, è un disco nostalgico che rimanda ad uno dei capolavori di tanti anni prima (Harvest, appunto, l’album più noto e venduto di Young), una specie di esorcismo personale nei confronti della vecchiaia che avanza. Stavolta sono incappato in due capitoli transitori e adesso sono meno convinto della tesi iniziale, ma forse devo soltanto provare altre strade. Poco male, visto che molti pezzi di quei due dischi valgono eccome, ma preferisco ritornare sulla strada tracciata in compagnia di uno dei più grandi gruppi di supporto che esistano, i Crazy Horse, e decido che tocca a Sleep With Angels. “Angels” è un altro grande disco, forse l’ultimo veramente convincente: quando lo comprai avevo circa 17 anni e non credo di aver mai pensato, neanche una volta, di stare ascoltando materiale scritto e suonato per orecchie anziane. Ricordo bene il potere di Piece of Crap, un bel pezzo garage che suonava davvero bene fra un video dei Soundgarden ed uno dei Beastie Boys, ma il tono di tutto il resto è funereo ed incentrato più sul piano che sulla chitarra, una specie di Tonight’s the Night ispirato non dalla morte di persone vicine come potevano essere Danny Whitten e Bruce Berry, bensì da quella di Kurt Cobain. Se ne parlò benissimo, e molti commentatori si spinsero fino a giudicarlo come un sentito epitaffio per tutto il rock alternativo, ipotesi di cui non sono affatto convinto perché Young ha sì cercato di veicolare la propria musica come catarsi collettiva, soprattutto dal vivo, ma senza mai indulgere in pretestuosità paternaliste tipiche di altri musicisti nati nel suo stesso decennio. Teorie personali a parte, e ammesso che un lavoro intimo come Sleeps With Angels sia davvero dedicato alla morte di una rockstar tanto influente, è comunque fuori di dubbio che rappresenti anche la strada meno presuntuosa per farlo. Ecco, la chiave per capire qualcosa riguardo alla popolarità duratura di Neil Young potrebbe risiedere anche in questa capacità di comunicare solo lo stretto necessario, un vero talento naturale nell’evitare ogni ridondanza, elemento che ne inspessisce di parecchio la poetica e che è tornato utile sia al tempo del punk che durante l’insorgenza dell’alternative rock. Stiamo parlando quindi di un ponte, un ponte capace di collegare varie ere del rock fra loro, e in questo la figura di Neil Young (outsider, lontano dalla magniloquenza dei suoi contemporanei nei ’70, vicino all’understatement tipico delle due decadi successive) sta tornando parecchio utile.
A questo punto è utile richiamare alla memoria il concerto tenuto a Lucca due estati fa. Una delle date del Summer Festival, manifestazione dalla qualità altalenante a seconda degli anni, era riservata proprio a lui insieme ai Crazy Horse e l’occasione di vederli così vicino a casa era troppo ghiotta per essere accantonata. Il concerto fu, neanche a dirlo, eccezionale. Fui sorpreso dalla potenza delle chitarre di Young e Frank Sampedro perché in fondo mi aspettavo una serata tranquilla, molto acustica, alla stregua dell’ultimo album Silver & Gold, e invece mi ritrovai immerso in uno dei concerti più elettrici che abbia mai sentito. I ricordi più nitidi? L’inferno distorto di Hey Hey, My My, l’eterogeneità anagrafica dei presenti, che andava dai 20 ai 60 anni, due Marlene Kuntz che sembravano toccati nel vivo dalla furia di quei sessantenni e il saluto timido di una band mai vista così informale. Ah, e senza dubbio i ragazzi davanti a me, rimasti accampati per ore sotto la camera d’albergo dei musicisti solo per suonarne le canzoni con due acustiche!
E allora, appurato che questo pubblico under 25 esiste e che è pure abbastanza cospicuo, cosa può permettersi di ascoltare, oggi? Lascio sullo scaffale i due ultimi due dischi dei Pearl Jam, li conosco quanto basta per definirli i più younghiani del loro catalogo, preferendo mettere a girare Yankee Hotel Foxtrot degli Wilco: potrà essere bollato come un disco sperimentale (?) ma sembra più che altro indebitato con On the Beach e tante altre tonnellate di tradizione nordamericana. Riascolto i Dinosaur Jr. e quella voce nasale che sembra rubata a chi so io, rimetto su i Son Volt e scopro che spesso si sfiora il plagio, mi rendo conto che Songs:Ohia e Cat Power sono tributi viventi alle ballate più scarne di Neil (curioso che, nelle interviste, Chan Marshall citi sempre Dylan e mai Young). Prendo in mano persino Murray Street dei Sonic Youth, proprio loro, per scoprire che quegli arpeggi scordati hanno una qualche parentela con i pezzi più stralunati del beneamato canadese. Mi fermo qui, per adesso, ma questa è un’altra, l’ennesima, prova importante dell’ombra che Neil Young getta su buona parte del rock contemporaneo.


Bernardo Cioci

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