. Silver Jews
Joe Boyd


Rispettato ed odiato allo stesso tempo, Joe Boyd è la classica eminenza grigia della discografia. Ha un retaggio intellettuale e la nonchalanche di quello che, se pur perde una occasione, ne trova una subito una migliore girato l’angolo.
Vietato o quasi parlare di musica con lui: spara a zero più o meno su tutti e se salva qualcuno – come avviene nel primo volume autobiografico appena pubblicato “White Bycles” – è per motivi strettamente musicali.

Essere musicisti? importante sì!, ma fino a certo punto.
Molto di più è conoscere antefatti, storie ed aneddoti che ci hanno portati, svogliatamente e disinteressati alla buona musica, dice lui – fino ai nostri giorni. E dopo la definitiva vendita della sua Hannibal records alla Rykodisc, l’etichetta indipendente che ha guidato con coraggio e successo per tanti anni fino alla metà dei novanta e da poco inghiottita dalla Warner Brothers americana, il diluvio, naturalmente.

Boyd non è un personaggio simpatico, ma è una simpatica canaglia per cui, se non hai da far affari direttamente con lui, non ci sono comunque problemi a tenergli testa.

È affascinante, giovanile, ti fa capire subito che non te la manderà a dire, che le donne più belle dei sessanta e dei settanta (ma a stargli una sera accanto, anche del duemila secondo chi scrive) gli sono cadute ai piedi, e che la noia perenne, mista a una fare sornione e educato, è solo il frutto di troppi eccessi.
Non bastando tutto ciò Joe può andare in giro a testa alta sbandierando il piedigree dorato – tutto bostoniano – di chi, appena ventenne, si è potuto permettere di lasciare l’America, la terra delle mille opportunità, per la nebbiosa Inghilterra.
Dimenticandosi, così per caso, di ricordarti che lui l’Amerika la trovò proprio nella terra d’Albione contribuendo a tramutare il gioco della rabbia giovane nella reason why di una generazione.

Se sei musicista, non appena entri nel suo mondo tutto ti invoglia a cambiare mestiere: dimentica i dischi d’oro avuti per i tre album prodotti per Nick Drake (sono premi di venticinque anni dopo, ricordiamolo), le foto d’epoca, i biglietti di amici, una pila di master del secolo scorso e una collezione di vecchi ellepi Folkways che farebbe gola al Library of Congress degli Stati Uniti, quel che fa davvero rabbrividire è la zona dei cosiddetti “ascolti“. C’è dell’altro,

“Ricevo migliaia di cdr la settimana, avevo pur bisogno di organizzarmi! – mi dice mentre gli allungo la copia del disco dell’Orchestra di Piazza Vittorio promessagli pochi mesi fa con l’intenzione di fargli ascoltare musica italiana dei nostri giorni che venga dal “popolo“ e “dalle multietnie che popolano l’Italia“ – e così ho organizzato questi contenitori per dividere il materiale”, esclama mostrandomi delle scatole alte come un bambino di sei anni che occupano molto spazio.

Provo a leggere cosa Boyd ha scritto sulle scatole di suo pugno: “cantanti e gruppi bianchi che fanno finta di essere neri“, “cantanti e gruppi neri che fanno finta di essere bianchi (ed occidentali)“, "Punk per forza“, “punk per finta“, punk per necessità“, punk per disperazione“, “cloni di (segue lista)“, “eccentrici”, “disonesti con se stessi“, “disonesti con gli altri “, “cover bands di cover bands”.

Mi fermo alla undicesima e tiro il fiato. Joe sta guardando fuori dalla finestra, ha le mani in tasca, il fare casuale di sempre e parla voltato verso il vetro.

“Mi sono promesso di non produrre più nessuno verso la metà degli anni novanta quando la mia voglia era già scemata da un bel po’ (forse dai Dyzrithmia di Danny Thompson, Jazkko e Gavin Harrison?) – mi confida in una riflessione che NON troverete sul libro “White Bycles“ - ma alla fine resti risucchiato da vecchi amici come Chris Blackwel con cui fondammo (senza successo! ndr) la Palm Pictures e l’abitudine al mondo della discografia, soprattutto di una certa discografia, riemerge, misteriosa. Poi però – pare tirare un respiro di sollievo – fai un passo indietro. In un certo qual modo l’avvento del cosiddetto Britpop mi esentò dal rientrare nel vortice drammatico della vita del produttore “. Non saprei dire se fu culo o intuizione. Ci penserò,

Spiega: “ Al primo disco il produttore è il salvatore dell’artista, a lui si deve tutto, al secondo disco è la sparring partner con cui condividere, al terzo è solo il capro espiatorio di insuccessi, scazzi e lotte intestine. Se un essere umano ci pensa serenamente, si rende conto nel tempo di un attimo che tale via crucis non è richiesta né è il frutto di una qualsiasi voglia condanna alla eterna dannazione. I soldi ? negli anni sessanta vivevamo tutti senza una lira in tasca e sorridevamo sempre. Poi sono arrivati i soldi e con i soldi il resto. E’ allora che abbiamo smesso di sorridere!. Mi vuoi dire tu quando stavamo meglio? “.

Difficile dargli torto. Anzi, diciamo chiramente che ha proprio raqione!!!.
Certo è che Boyd ha costruito una carriera su questo carisma trasversale del dare e del prendere, del prendere o lasciare.

Riflettete bene : non ha mai fatto più di un numero limitato di dischi con lo stesso artista, ha avuto il suo primo hit single in classifica solo nei settanta ( con un’artista americana per giunta !, Maria Muldaur), per colmo della sorte in quel decennio ha fatto più soldi come produttore cinematografico che discografico, con un documentario su Hendrix.
Come accadde ciò? Semplice! grazie a una botta di fortuna; a una sequenza in cui Jimi suona alla chitarra acustica “Hear my Train a-coming “girata da una troupe assoldata e pagata dallo stesso Boyd, sequenza intorno a cui gira tutto il documentario.

Quando si dice essere al posto giusto, al momento giusto. A voi, è mai capitato?

Non c’è da escludere che la fortuna venga attratta da chi già ne ha, ne parlavamo tre estati fa quando ci sedemmo uno accanto all’altro al Teatro Comunale di Firenze per assistere a un concerto di Caetano Veloso. “Facciamo un disco insieme “ mi disse raggiante. Poi il disco non si è più fatto ma per un periodo Joe si faceva accompagnare da una ventunenne brasiliana mozzafiato: A questi particolari, scusate la sincerità, io un po’ di attenzione ci faccio. Mera questione di sensibilità…

“Vengo in Italia da molti anni – mi ricorda – a Bomarzo. Mi affascinano queste antiche bocche che rappresentano la natura umana. Nella musica è davvero così come nella mitologia: pesce mangia pesce più piccolo. La magia se ne è andata – aggiunge un po’ sconsolato - e mi sono divertito a stuzzicare il lettore con “White Bycles... Hey lettore, ti hanno sempre detto che gli anni sessanta per averli vissuti davvero dovevi averli dimenticati in una nuvola di fumo ?! Niente di più falso – esclama – io ricordo tutto. E qualcuno ha tremato- poi si ferma un attimo – ma io non ho moniti né insegnamenti per nessuno – dice con tono più paterno ma un po’ a figliol di troia – io ho giocato e gioco le mie carte”

Poi torna a guardar fuori: “ho ancora molte risorse – mi dice voltandosi e guardandomi negli occhi mentre si tira indietro il ciuffo ribelle – e me le tengo ben strette. – e conclude - Non mi sento gratificato dall’acceso istantaneo alla vita in diretta, la musica era parte di un processo a trecentosessanta gradi. Vengo da una generazione che rispettava gli studiosi, gli specialisti, i completasti e gli uomini di cultura! “.

Poi, con una ferma stretta di mano mi lascia lì, a riflettere su quanti di essi ve ne siano ancora in giro.

Ernesto de Pascale

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