. Maynard Keenan, Justin Chancellor, Danny Carey - Tool - palaghiaccio Marino Roma

Tool
Palaghiaccio Marino 21.06.2006

No photo. No video. No flash. Il pubblico al concerto dei Tool sembra solo un intralcio. Gli spettatori si ricordano di esistere in tre soli momenti. All’inizio, quando un tizio si presenta davanti al pubblico del palaghiaccio di Marino chiedendo di rispettare la volontà dell’artista e di evitare di scattare foto. La seconda è nell’unica pausa del concerto, quando Maynard Keenan si sposta dal proprio angoletto e sedendosi per terra con il resto del gruppo invita con un braccio ad aumentare il volume e l’intensità dell’incitamento. Ovviamente non tradisce la sua posizione spalle al pubblico. Per il resto il pubblico c’è. Canta, balla, suda, urla, si fa male, si esalta. Lo spazio è inadeguato. Il volume, anche se a quei livelli non dovrebbe fare differenza, esageratamente confusionale. Justin Chancellor sembra un tizio qualunque, ma il basso lo fa suonare e tanto anche, fino a coprire il rullante di uno strepitoso ed elegantissimo Danny Carey. Sono lì, con la batteria girata di tre quarti, il basso e la chitarra disposti ai lati in prima fila e la voce quasi in castigo in penombra a lato. I quattro pannelli saturi di immagini psicotool rilevano dalla sua ombra la cresta di Keenan. La stessa ombra che potrebbe avere uno sciamano intorno alla luce guizzante del fuoco. La poca nitidezza sonora, maledetti palazzetti reciclati dal tifo domenicale, creata dall’imponente suono di chitarra di Adam Jones e dall’invadente e onnipresente tessitura di basso esalta il cerimoniere che all’inizio si divide tra essere ombra dietro i pannelli e l’ombra del “suo” pezzo di palco. E lo spettacolo ha inizio.
I pezzi nuovi e vecchi vengono sgranati dal gruppo come un rosario. I pannelli sovraeccitati da immagini e video fanno da sfondo alla sagoma di Keenan a torso nudo che sempre di spalle assume pose plastiche propiziatorie, intermezzate da movimenti alla Dave Gahan meno divo, senza riflettori addosso, e impugnature d’asta alla Joe Strummer. Tutti hanno una compostezza formale sbalorditiva. Solo Chancellor si muove con moto ondoso alzando ogni tanto la testa guardando il pubblico. La loro bravura a tratti fa spavento e sembra impossibile che tre persone riescano a produrre quella densissima cattredale di suoni. Peccato veramente per l’assenza di chiarezza dell’impasto sonoro, ma ci si passa sopra. Si sopporta per il semplice fatto che la voce è quella emozionale dei dischi, le chitarre quelle claustrofobiche degli album migliori, basso e batteria che scandiscono inesorabilmente il tempo di un toolmondo fatto indistintamente di linearità, fermezza e turbini visionari.
La platea è illuminata qua e là delle luci sospese degli onnipresenti telefonini, ma nonostante questo la fisicità della musica fa muovere bene o male tutti. La macchina sparafumo ai limiti del palco non si ferma un attimo. Le chitarre primitive non la finiscono di picchiare. Il basso ossessivo fa tremare qualsiasi cosa. La batteria va avanti come un treno, tra ritmi sincopati e tempi quadratissimi. La voce rimbalza tra un canto di sirene, urla d’aiuto e esaltazione da posseduto. Nessuno sembra più accorgersi che chi canta è di spalle, in disparte, anche se viene da pensare a un album come Emotive dei A Perfect Circle, dove Keenan si è molto esposto alla vigilia delle ultime elezioni politiche negli Stati Uniti.
Dopo un’ora e mezza senza pause o sconti, i Tool chiudono raccogliendo scrosciate di appalusi e fischi. Salutano. Sbuca fuori di corsa anche Keenan con gli occhiali da sole, indossati durante tutto il concerto, con un cappello da cowboy, sempre di spalle al pubblico pagante. Si complimenta con i suoi compari come se fossero a una partita di basket o football e poi corre via come inseguito da chissà quale animale famelico. Gli altri invece rimangono a bagnarsi di gloria, tirando feticci tra e sulla folla. È il terzo momento in cui gli ascoltatori esistono. Tutti escono un po’ delusi perché tutto è già finito. Fuori un mercato di magliette esagerato. Dentro di sé la consapevolezza di aver assistito a un grande spettacolo.

Pierluigi di Stefano

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