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Michele Papadia - Afrocentradelic
(Picanto)
www.picantorecords.com

It’s a mutha!

Chissà se all’ancora giovane e super talentuoso tastierista Michele Papadia gli anni settanta, a cui il nuovo album Afrocentradelic fa esplicito riferimento, nutrono ancora mistero e soggezione così come lo nutrirono per quel popolo di musicisti e per una vaste fetta di seguaci annessi che -almeno qui in Europa - considerarono importante scavalcare le frontiere del jazz più moderno ed elettrificato come via di fuga dall’hard bop dei sessanta.
Il recensore si pone questa domanda perché Afrocentradelic mantiene il tono della sperimentazione tipico di tanti dischi - minori e no - di quel decennio e viene spontaneo lodare un giovane che se ne faccia carico in un album caratterizzato da ricerca attiva e propositiva con così evidente cognizione di causa lì dove non piace a chi scrive il mero esercizio didascalico.
Afrocentardelic, al di là dei doverosi riferimenti ad artiti di oggi impegnati nello stesso filone come Madaski, Martin & Wood, girà benissimo da solo e si dimostra autosufficiente rivoluzionando intorno al cosmico e torrido brano che dà il titolo all’album, un lungo viaggio nella groovosa mothership di un decennio che fa gola ai più bravi fra i giovani musicisti di oggi.
Qui, come in tutte le composizioni del disco, fa bella mostra di sé l’apocalittico trombonista Gianluca Petrella, un marziano con sembianze umane, oltretutto italiane, che speriamo vedere in futuro impegnato in un numero minore di progetti per dare maggiore spazio a questo sodalizio.
Come in un fantastcio happy ending, nel brano Afrocentrodelic. Petrella si ricongiunge con Papadia per la coda spacey gospel del brano che dà il titolo all’album mettendo in orbita l’intera raccolta con toni glorificanti e santificanti.
A quel punto, dispiace per il produttore Sergio Gimigiliano e per tutti i musicisti che si devo essere divertiti molto a registrare Afrocentrodelic, il disco era però finito. Invece Afrocentrodelic va avanti per altri sei brani - nessuno inferiore alla media - che non aggiungono comunque niente a quanto di buono era già stato scritto e suonato fino a quel momento.
Una ingenuità, niente più, che toglie però urgenza a un ottimo disco che avrebbe beneficiato del detto less is more. Un augurio a tutti per risparmiare energie in futuro e produrre dischi non belli ma bellissimi!.

Ernesto de Pascale

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