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1980 was a pretty wild year for me

Bevevo birra e fumavo sigarette americane, e vivevo sulla corsia di sorpasso. Mentre avevo deciso di intraprendere alcuni esami universitari in un corso della Columbia University di New York City dovevo parimenti terminare quelli dell’anno precedente qui in Italia mentre a Settembre la RAI mi offriva – dopo avermi ascoltato sul circuito privato in FM di Radio Luna – di condurre un programma sul primo canale delle onde medie, Combinazione Suono. Eccomi perciò a fare avanti e indietro alcune volte con New York City dove insieme a Dj Gregg vivo al Greenwich Village, Thompson Street, numero 10 in una casa di tre stanze che da su un muro e mi godo la città non ancora sconvolta della piaga dell’AIDS.

Ma le radici sono qui a Firenze, una città che noi ventenni viviamo come noiosa e cerchiamo di movimentare con tanti gruppi, radio, giornali underground e altro ancora. Da qualche tempo anche il circondario è un pullulare di locali, cinema d’essai e altro ed è proprio verso fuori che ci stiamo dirigendo stasera.
Firenze è collegata all’ hinterland di Sesto Fiorentino, a Nord della città, da piccoli centri abitati che ripropongono le antiche stazioni romane, ed è presso la casa del popolo di una di esse, Quinto Alto che mi apparirà, in circostanze ancora oggi a me poco chiare, Butch Hancock, un nome che gli amanti americana di quei primi ottanta conoscono poco per la musica, molto per sentito dire.

Chi è Butch Hancock si chiederà forse ancora adesso qualcuno di voi ? Butch è un grande storyteller texano, un hobo – così si introduce lui stesso – un viaggiatore di quelli di una volta.
Musicalmente parlando Butch è un cantautore di chiara matrice dylaniana che il proprietario di uno dei più importante negozio d’importazione d’Italia ha elevato al girone degli imperdibili dalle pagine di un mensile, un po’ il “ suo” giornale all’epoca, senza che molti lo avessero però ancora ascoltato una volta, colpevolizzando così centinaia di suoi acquirenti/adepti che pendono dalle sue labbra. Pratica questa di cui è un maestro.

Chi è questo giornalista non meno importante nella nostra storia di Butch? Egli è fondamentalmente uno di noi, più grande di noi, che per vivere vende dischi (ottima cosa!) riuscendoci con una certa facilità e – come tutti noi cresciuti nei settanta e forse prima, senza dubbio prima dell’avvento della videomusica e del corporativismo – pensa che ciò che dice sia oro colato (l’ ho sempre pensato anch’io senza vergognarmi troppo ) e che si fa dei gran viaggi sull’America e i pionieri (almeno allora, nel 1980 mi pareva se ne facesse tanti…) e che, tramite il giornale, il suo bollettino mensile di vendite, una certa autorevolezza fisica e secondo il detto che chi prima arriva meglio alloggia, si è costruito un’aurea epica intorno a se. D’altronde, altrove, allora come oggi, in Inghilterra, in America, non ci si comporta in modo molto diverso, basti pensare a certe firme giornalistiche dell’epoca come Lester Bangs o Nick Kent. Perciò tutto ok.

Jimmie Gilmore, Joe Ely, Butch Hancock - The FlatlandersDi questo appassionato negoziante si raccontano gesta tremebonde e modi bruschi per chi non è fedele alla linea; pensate che un amico fiorentino, anche lui appassionato di musica e che frequentavo a quell’epoca, lo apostrofava con l’appellativo mitologico di “”: Il mio amico era solito per i suoi acquisti settimanali (diverse centinaia di mila lire ogni sette giorni esatti…) telefonare il sabato pomeriggio al negozio di “Eù” (sai il casino e la processione che ci doveva essere…) e mettere giù la cornetta se quello in persona non poteva rispondere; egli non accettava, insomma, consigli da nessun altro dipendente e se dal tono del Profeta capiva che non era giornata accettava a testa bassa tutti i dischi che sua Altezza gli suggeriva, anche le peggio puttanate!, senza battere ciglio. Beh! Con questa storia siamo andati avanti così per anni e con molti, comunque i meriti del signore in questione sono molti: ha introdotto con una certo entusiasmo molti in Italia a tanta buona musica anche se – lo deve ammettere pure lui – ha preso delle cantonate micidiali e oggi le mostre di dischi usati di seconda mano e rari ( o presunti tali ) sono piene di scatole di alcuni di quegli album che lui presentava con tanta enfasi sulle pagine del mensile.

A questo punto, a scapito di Butch Hancock e del nostro incontro vi voglio rivelare come distinguere questi album a un convention di rarità: stiamo parlando di trentatré giri di (presunta) musica country o country rock americano pubblicati intorno alla metà degli anni settanta ( il periodo pericoloso è quello che va fino al 1980 circa) e facilmente identificabili. I suddetti album
"consigliati da" non li scoverete mai fra le rarità e costano mai più di 10 euro -nonostante ci siano dischi dello stesso periodo che raggiungono prezzi stellari! – e presso i banchi li distinguerete facilmente perchè non sono mai trattati con la stessa cura di certi altri a cui, pur se non rari, si attribuisce un certo valore artistico e si riserva a loro un trattamento speciale (bustina di protezione, prezzo indicato, adesivo con attributi artistici entusiastici etc…)
Ancora oggi, a onor del vero, basterà leggere il mensile che ospitava le recensioni di “” per capire la visione non oggettiva, concentrica del suo gusto. E nondimeno i migliori negozi di dischi – nonostante le generazioni siano altre con altri punti di riferimento e nessun rischierebbe più acquisti incauti – un occhietto a quello che quella rivista scrive, ce la buttano sempre, nonostante che anche su quelle pagine traspaia la noia di doversi aggrappare oramai sempre agli stessi nomi.
I meriti di questa persona sono, come dicevo, però molti : certo è che le cosiddette Jam Band non avrebbero avuto così presto attenzione in Italia se qualcuno non se ne fosse accorto subito, nè bravi artisti, oggi cari amici di chi scrive, come Jono Manson.
Di queste intuizioni lo devo ringraziare personalmente anche se gli contesto il disinteresse verso l’Italia musicale e il lavoro di tanti indipendenti e certi veti sulle pagine di quella rivista che i suoi collaboratori più stretti imputano personalmente a lui facendo scarica barile e, oltretutto, sputtanandolo dietro i cappelli.

Ma dopo questa lunga digressione sullo stato di certe cose musicali in Italia nel 1980, torniamo ad Hancock e diciamo che “” ha fiutato da poco questo Butch e che negli ultimi mesi ce lo sta rifilando in tutte le salse, descrivendolo come se l’America - più o meno - senza di lui non possa andare avanti. E te lo scrive con talmente tanta enfasi che tu sei portato a crederci anche perchè quando aggettiva un disco con il termine “ sapido “ tu non sai se scherza o fa davvero e nell’imbarazzo qualche volta ci caschi e ti adegui…altri tempi…

Quindi, eccomi qui stasera alla casa del popolo di Quinto alto, profondo hinterland fiorentino, con il G.J., il batterista dei gruppo di cui orgogliosamente faccio parte, LightShine, fido compagno di bisboccie. G.J. è un tipo dal fiuto straordinario per la musica ed è stata la prima persona che ho visto capire davvero il rock duro in tempi non sospetti. Anche lui trasmette a Radio Luna e il suo programma si chiama, infatti, “Rock Steady”. E’ da quei microfoni che G.J, fra un “Oh Yeah”, un “Rock & Roll!” urlato a pugno alzato ed un “C’mon” quando parte un solo di chitarra ci suona della roba soda che nessuno in quegli anni di new wave sognerebbe mai di mettere in onda . E’ lui che, nell’autunno millenovecentosettantasette – aveva sedici anni - si era presentato all’appuntamento datogli in piazza San Marco per sostituire il batterista uscente (il precedente partiva per la leva) in jeans, maglietta nera "Wild Things" con lustrini e paiettes, giubbotto denim stone washed e stivali bianchi con zeppa, e nel bel mezzo di un trip ("positivo" mi confessò). G.J. mi rimase subito simpatico per la sua dolcezza agrodolce a ritmo di quattro quarti e dopo Charlie Watts e Ringo Starr ho sempre pensato che veniva nell’ordine lui al numero tre! Eccoci qui tutti e due, quindi, come tante altre sere. “No, G.J. tagliati i capelli e comprati la bicicletta…” questo era il tormentone imperante che lui subiva sorridendo certo di avere trovato un amico. Eccoci qui con i nostri grandi discorsi e tanti suoni nelle orecchie, con il nostro “never ending tour” ancora non finito, sfigati anche se fidanzati ma, sopratutto, fondamentalmente felici e con pochi problemi e le molte lamentele di chi lo deve scoprire che "la felicità costa un gettone / per i ragazzi del juke box".
Stasera siamo arrivati fino a Quinto, tappa del nostro tour con la mia Fiat 127 verde sempre in riserva. Ci siamo perchè su indicazione di qualcuno ci hanno detto che c’era da veder suonare un tipo “strano” o forse solo per cercare una nuova sala prova ed è così ci troviamo davanti un baffuto americano simpaticone, con una giacca di velluto a coste larghe che canta canzoni per una birra in una casa del popolo senza curarsi troppo di dove e come.
Ascoltandolo nella mia testa cominciano a frullare le ipotesi e le illazioni: qui nessuno lo conosce e un tipo del posto dice che è arrivato da un quarto d’ora e ha chiesto di esibirsi interrompendo così una lunga sfilza di Cantautori Carismatici Contaminati che avevano fatto a tutti due palle così! Lui, invece, chiunque sia, è uno vero, lo si capisce subito. Forse sotto l’effetto dei consigli del su citato “” mi faccio il viaggio che quello che mi trovo davanti è Butch Hancock.
Immaginate il mio stupore quando quello si presenta. G.J. non ci crede e sbraita che lo sto prendendo in giro e che magari siamo anche d’accordo io e il texano. Ci dice di girare l’Europa con i soldi vinti alla lotteria del suo paese e di non sapere dove si trovi.

Butch Hancock si meraviglia che qualcuno a Quinto Altro, fra Sesto Fiorentino e Firenze, lo conosca ma il suo stupore è limitato a un attimo perchè in quello immediatamente successivo, felice ma chiaramente nel suo mondo, mi comincia a tirar fuori decine di foto in bianco e nero di castelli di sabbia che lui costruisce chiedendomi se conosco una spiaggia vicina dove “esercitarsi“. G.J. scoppia in una flagrante risata che lascia interdetto anche l’americano. Egli mi dice di essere un architetto e mi mostra un blocchetto di schizzi geometrici, esercizi matematici e altro che, lui afferma, sono la parte teorica delle sue costruzioni in sabbia. Ci spiega che grazie ai castelli di sabbia lui è grado di fare progetti a rischio di crollo zero. Il mio socio a questo punto sta per vomitare la Moretti che si è finito da solo (il bastardo…) e gli tiro un calcio negli stinchi perchè la cosa si fa interessante. Il giornalista che è in me bracca dritto Butch e lo invita il giorno dopo a Radio Luna Firenze per una intervista dal vivo. Nelle 24 ore che ci separano dal nostro incontro al successivo io mi riascolto in fila “West Texas Waltzes & the dust-blown tractor tunes” (1978, Rainlight records), “The Winds Dominion” (1979, Rainlight records) e il recentissimo “Diamond Hill” (1980, Rainlight) la cui copertina è uno schizzo per un suo qualche improbabile progetto - mi spiegherà in seguito Hancock - e decreto il secondo di questi tre album un capolavoro.

Jimmie Dale Gilmore, Marcie LaCouture, Butch Hancock, and Joe ElyG.J. stasera è tutta la sera che gli sbadiglia in faccia al texano e senza mezzi termini mi dice che questo sì, insomma è bravo ma "… cazzo Ernesto!…ma dai!, sembra Dylan che ha preso il valium un minuto fa!" . Io,per discrezione, non traduco. Cerco invece di coinvolgerlo ma con pochi risultati positivi. G.J. si sveglierà solo quando Butch gli parlerà della sua amicizia con Johnny Winter. Rock & Roll, appunto! Al negozio di Contempo records dove lavoro ancora quando sono a Firenze e dove sono cresciuto e svezzato musicalmente negli ultimi quattro anni glielo avevo detto stamattina che oggi avrei avuto Butch Hancock alla radio ma nessuno mi ha creduto e allora io, risentito, li ho mandati tutti in culo e li ho invitati ad ascoltare la radio questa sera stessa, ma già so che non lo faranno, soliti detrattori del menga…
Nel frattempo Hancock, che ho raccolto da qualche parte la sera alle 20 e 30 mi dice aver passato la giornata a Viareggio a fare dei castelli di sabbia e mi mostra delle polaroid del suo lavoro odierno con tono entusiastico e orgoglioso.

Alla radio lui si scola da solo una bottiglia di vino (che si era portato nello zaino) e racconta la storia della sua vita e dei suoi amici, uno dei quali, sono preparato grazie ad “Eù” è Joe Ely, altro osannato e lanciato dal nostro scopritore di talenti americani, e – titolo meritorio - nominato da Joe Strummer dei Clash come “ultimo dei veri pionieri”. Naturalmente Butch chi siano i Clash neanche lo sa. G.J. lo guarda schifato con occhio compassionevole. Viene fuori che con Ely e un certo Jimmie Dale Gilmore che lui appella “sonofabitch” avevano fatto un disco ma lui non ne ha mai visto una copia nè lo ha mai ascoltato. Il nome del gruppo era “The Flatlanders”..."a good record but never published…”, dice lui e io giù a sognare i texani con le loro canzoni da ultimi fuorilegge che arrivano a Nashville e vengono fregati dalla music industry. Il mio compagno di bisboccie intanto sbadiglia.

La nostra serata va avanti così fra canzoni, vino, dischi, aneddoti e noia di G.J. che però ogni tanto si riprende quando sente nominare la parola sacra: “Rock & Roll”. Poi anche la serata ha la sua fine e chiedo a Butch dove vuole essere riportato. Lui mi chiede se lo posso scaricare dalle parti del Duomo. Sarà lì che lo lascio con il suo zaino pieno di vita.
Non lo rivedrò mai più.

Quando da lì a poco in Inghilterra l’etichetta Charlie, grazie alla costanza del dj della BBC Charlie Gillette, ha la felice intuizione di ristampare il disco di “The Flatlanders” (in quello stesso 1980) le parole di Hancock sulla bontà delle canzoni saranno tutte confermate.

Non capirò mai se in quei giorni mi si è parato davanti un fantasma, un cowboy visionario, un poeta, un architetto, un bambino cresciuto, un redneck, un honky tonk hero, un outlaw o vattelapesca chissàchi ma non importa. Meglio di tante parole contano le sue visioni poetiche, l’essersi incontrati e guardati negli occhi anche solo per un attimo, avere una storia da raccontare, un amico che ha vissuto con te quella come tante altre notti.
Ecco che quando oggi, nel 2004, “Eù” recensisce l’ album di “The Flatlanders”, “Wheels of Fortune”, e si commuove e intenerisce il cuore a tanti naviganti vecchi e nuovi io mi volto e vedo G.J. sbadigliare e ripetermi la stessa tiritera "… cazzo Ernesto!…ma dai!, sembra Dylan che ha preso il valium un minuto fa!…" e un sorriso si ferma sul mio viso senza troppe domande.

...‘cause there nor question nor answer for an honky tonk hero like me...” Perchè non ci sono domande nè risposte per colui il quale non sai se hai davvero conosciuto mai.

Il vento soffia sul parabrezza e la radio suona tristemente attraverso la notte / una pazza, fiammeggiante stella cadente mi supera sulla destra / e la sua scia scompare laggiù dove l’autostrada scivola via nel buio fuori dal mio sguardo / mentre il cane del fattore può solo abbaiare al vento del nord che morde feroce”. ( da “You’ve never seen me cry“, 1972)

Ernesto de Pascale

E voi non li chiamereste questi, forse, castelli di sabbia ?



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