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Tutti amavano il jazz: storie della storia del jazz


Scena prima: durante un dopocena a casa di amici, sarà capitato a molti di sentirsi chiedere “Hai sentito l’ultimo della Krall”. Oppure un ancora più inquietante e colto “certo che un disco jazz che entra in classifica è davvero raro… farà bene all’industria discografica, brava questa Nora Jones”.
Scena seconda: appena dopo queste sentenze, una volta a casa ritrovarsi a sfilare uno dopo l’altro i dischi cercando alla lettera J qualcosa di Nora Jones, oppure alla B qualcosa di Michael Bubblé.
Niente. Non si trova nulla. Eppure si dice che c’è un ultimo disco di Michael Bublé.
Allora, insospettito, decido di informarmi, e mi accorgo che non ci sono solo la Krall, la Jones, Bublé, ma addirittura c’è chi insidia questi ultimi, come d’altra parte lo stesso Sinatra canadese (sic) ha a sua volta scalzato da un trono parecchio effimero Harry Connick Jr.; difatti altri personaggi sembrano apparire all’improvviso, con il loro portato di immagine e riferimenti più o meno colti, come ad esempio l’inglese Jamie Cullum, da un paio d’anni celebrato in Inghilterra come una delle stelle nascenti del piano e della canzone jazz, da poche settimane entrato fragorosamente al centro dell’arena dello spettacolo tra recensioni, interviste e promozioni anche in Italia.
Che cosa accade? Mi domando perché continuare a fare riferimento al jazz, perché continuare a scomodare figure importanti per la storia della musica del 900, costruendo sistemi di riferimento artistici del tutto fuori luogo?

Norah Jones

Non credo occorra mettere in evidenza che quello che stona, in questo scenario a tratti imbarazzante, non è certo la dimensione del mercato. Una dimensione che struttura evidentemente il campo del consumo culturale, musica – e jazz – compresi. D’altra parte le leggi del mercato hanno contribuito ad affondare, con gli strumenti che erano a loro disposizione, molti personaggi che non hanno retto alle pressioni dell’industria discografica, anche nel jazz. Eppure senza il mercato non avremmo avuto mai la possibilità di conoscere l’arte – per restare alle voci – di Sarah Vaugham, di Mildred Bailey o di Joni Mitchel.
Dunque il problema non è il mercato. Quella commerciale è una dimensione acquisita, condivisa, con la quale occorre fare i conti, ma dalla quale non possiamo prescindere.
Allora è altro. La domanda, ancora, è la pertinenza della definizione musica jazz accompagnata ad esperienze musicali che di jazz poco o nulla hanno.
Il jazz, si dice, è quell’arte che ha la capacità di penetrare nelle musiche, arricchirsene e restare se stesso, vale a dire intuizione, sapere e innovazione.
Intuizione, sapere e innovazione.
Ma c’è ancora qualcosa che continua ad arrovellarmi. I giornali, le riviste musicali in genere, le radio e le televisioni continuano a riportare la discussione attorno a questi casi discografici, usando come categoria di riferimento il jazz.
Leggendo le interviste recenti di Jamie Cullum o di Michael Bublé mi accorgo che in realtà loro sembrano schernirsi di fronte alla generalizzazione jazz.

Norah Jones

Il jazz sembra una categoria cognitiva capace di racchiudere tutta la musica, oppure si tratta di una categoria giornalistica e commerciale capace di attivare l’attenzione attorno ad un caso musicale? Come a dire che di fronte all’incapacità di racchiudere in un genere preciso un caso discografico, si ricorre facilmente al jazz, capace di aprire gli spazi mediali sempre a caccia di eroi senza macchia e senza peccato che si schierano dall’altra parte dell’industria discografica, contro i giganti del marketing e del marchandising. Britney Spears contro Cullum? A che cosa serve? Forse solo a farci dimenticare che cosa poteva essere una canzone cantata da Billie Holiday, con la sua devastante carica di emozione e la sua musicalità. I nomi sono tanti, molti dimenticati, tra le voci femminili potremmo anche andare a scovare una figura di genere come quella di Blossom Dearie, voce incantevole, decenni nei night e nei clubs di mezza America, grande e infaticabile autrice di canzoni. A lei, forse prima di lei, aggiungere le voci piene di storia, cariche di capacità di narrare, di Sheila Jordan e Hellen Merril. Intuizione, sapere e innovazione.
Se vogliamo ascoltare jazz cerchiamo allora sotto le voci Holiday, Carter, McRea, Jordan, Merrill, Vaugham, Lee e altre ancora per restare alle voci femminili. Le storie della musica passano attraverso le loro interpretazioni. Le storie della storia del jazz sono li dentro, tra le pieghe del dolore e dell’emozione, della ricerca e dell’avanguardia.

Enrico Bianda

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