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Moody Blues - Justin Hayward
Moody Blues, un passato in costante divenire
Intervista a Justin Hayward
www.moodyblues.co.uk
www.thewaroftheworlds.com

Interview with the singer and composer who spent his whole life with Moddy Blues, after new releases of the first five albums.

Dopo lo special che il Popolo del Blues ha dedicato alle ristampe dei primi cinque album dei Moody Blues (marzo 2006, a cura di Giulia Nuti) è un onore poter completare l'omaggio al gruppo parlando con Justin Hayward. Cantante, chitarrista e compositore Hayward è una guida d'eccezione per la storia dei primi anni della formazione inglese, che dal Rythm'n'blues ha esplorato strade complesse, con varie influenze. Anche se in Italia i Moody Blues hanno suonato una volta sola, con il nostro paese esiste una relazione speciale, che Hayward ci ha svelato.

Da appassionati di rock britannico siamo molto soddifatti della ristampa di questi album. Sono cinque dischi che coprono un periodo che va dal 1967 al 1970 e rappresentano un grande numero se rapportato ai parametri di oggi. Certo, alla fine degli anni '60 si respirava qualcosa di diverso, ma comunque si tratta di una produzione importante dal punto di vista numerico oltre che qualitativo. Come è successo?

"Era importante per noi fare dischi, direi fondamentale perché era il modo migliore secondo noi di proporre la nostra musica al pubblico. Inoltre siamo stati molto fortunati a lavorare con un'etichetta quale era la Decca che aveva i propri studi di registrazione caratterizzati da grande professionalità. Questo era un incoraggiamento a incidere materiale e probabilmente i manager potevano programmare nel giro di pochi giorni i nostri turni nello studio. Così tutto ciò era uno stimolo, per me in particolar modo, a essere pronti per registrare. Il fatto di avere dei propri studi per un'etichetta era molto importante e contribuiva alla crescita dell'artista, a differenza di oggi in cui le case discografiche prendono le registrazioni direttamente dai musicisti".

Ci piacerebbe avere una sua breve descrizione di ogni singolo album ristampato. Questo per aiutare i lettori, specialmente coloro che si avvicinano per la prima volta alla vostra musica, a compiere percorsi d'ascolto. Una breve scheda per trovare qualcosa di particolare in ogni disco, partendo ovviamente da Days of future passed.

"Devo premettere che i cinque album sono stati concepiti in un periodo durato sette anni, partendo dal 1964. Sin dai primi momenti ci siamo accorti di avere un sacco di cose da dire musicalmente. Erano tante le idee e i concetti all'interno di esse che avevano la necessità di essere espresse al meglio. Il primo album rappresentava i nostri set dal vivo. In pratica Days of future passed era una vera e propria performance che riportava ciò che noi proponevamo al pubblico già alcuni mesi prima che noi avessimo l'opportunità di registrarlo. Fummo fortunati perché la Decca aveva bisogno di un gruppo che potesse dimostrare il funzionamento del loro sistema e delle loro attrezzature stereofoniche. Così Days of future passed era il disco perfetto per questo scopo e potevamo includere tutto ciò che proponevamo dal vivo, incluse Night in white satin e Tuesday afternoon. E' stata una fortunata coincidenza esordire con questo album, che era il segno dell'identità del gruppo. Era il modo migliore per dimostrare al pubblico quello che eravamo e ciò che volevamo esprimere".

Tra l'altro Night in white satin a suo tempo è stato tradotto in italiano e Ian Anderson dei Jethro Tull lo ha considerato un brano che avrebbe voluto comporre.

"Ci credo, lo dice perché c'è un bellissimo assolo di flauto che gli sarebbe piaciuto eseguire".

Passiamo a In search of the lost chord...

"Questo è stato un passo più rischioso per noi perché non avevamo un punto preciso di riferimento. Dovevamo fare tutto con le nostre forze e le nostre idee senza alcun supporto. Avevamo molte cose da dire, stavamo leggendo una grande quantità di libri, e provenivamo anche da esperienze psichedeliche e spirituali. In pratica era un periodo di illuminazioni, che poi sono confluite nell'album. Il titolo venne preso da una vecchia canzone di Jimmy Durante “sitting at the piano, searching for a lost chord”. E così pensammo che era una buona idea scrivere qualcosa attorno a questo tema”.

Il terzo album è On the threshold of a dream.

“Penso che per tutti noi questo sia l'album preferito perché il periodo in cui stavano registrando il disco era anche quello in cui cominciammo ad avere successo. Andammo in America due volte e le radio in modulazione di frequenza iniziarono a trasmettere la musica dei Moody Blues. Eravamo poi molto visibili perché eravamo in tour con i Cream e i Canned Heat. Quindi era un momento molto bello e capimmo che stavamo realizzando i nostri sogni e le nostre speranze.”
Poi troviamo un disco dal titolo molto curioso, To our children's children's children.

“E' un titolo che esprime al meglio quello che stavamo progettando. Volevamo fare qualcosa da lasciare ai nostri pronipoti, alle generazioni che sarebbero arrivate. Tutti sapevamo che la Nasa in America stava progettando una missione spaziale che avrebbe portato l'uomo sulla luna, e questo fu un'ispirazione importante. Inoltre il nostro produttore Tony Clarke, già da quando lo incontrammo per la prima volta nel 1966, aveva l'idea di realizzare un album dedicato allo spazio, all'eternità e ad altri concetti che erano collegati. A questa sua idea noi demmo vita, e tutti scrivemmo brani che concretizzavano il suo pensiero, soggetti legati allo spazio. Il vero problema di quell'album che era molto difficile realizzarlo sul palco perché suonavamo un sacco di strumenti. Molto materiale inoltre era di carattere oscuro e difficile”.

Eccoci finalmente a Question of Balance...

“Proprio per le caratteristiche del disco precedente, questo è stato un tentativo di tornare alla sensazione e alla prassi della registrazione dal vivo, creando brani più facili da suonare sul palco. Perché da quel momento abbiamo avuto la possibilità di esibirci in grandi stadi in America, paese dove avevamo molto successo. Quegli anni sono stati i più importanti nei primi settanta, anche perché legato al grande hit tratto dal disco, ovvero Question. Forse è stato il solo periodo autentico in cui abbiamo avuto un hit, a differenza di Night in White Satin che ha avuto successo in momenti e in posti diversi (Italia, Francia, Stati Uniti)”.

Ha ricordato più volte gli Stati Uniti, con un successo costante e che è rappresentato da un doppio album dal vivo ristampato tre anni fa con l'orchestra sinfonica del Colorado. Come spiega questo vostro grande seguito oltreoceano?

“Penso sia originato dal fatto che abbiamo scelto una nostra strada sin dall'inizio senza essere legati a una ricerca di successo dal punto di vista commerciale. Non avevamo pressioni per conformarci a idee e progetti di etichette discografiche. Poi le radio americane, che ho ricordato in precedenza, all'inizio erano veramente libere e potevano mettere in onda tutto ciò che volevano. E noi eravamo un gruppo che registravamo tutto ciò che volevamo e questo era un elemento di attrazione per il pubblico americano. Poi giravamo con i Canned Heat che era una boogie band: la loro era una musica molto diversa dalla nostra, ma capimmo che avevamo lo stesso pubblico che era nelle zone più tipicamente industriali degli Stati Uniti. Eravamo enreati nel cuore dle pubblico., tanto che negli anni '70 e '80 avevamo dischi al primo posto in classifica. E' stato un paese che ci ha supportato in modo evidente”.

Passiamo invece all'Italia. Vi siete mai esibiti nel nostro paese?

“C'è un grande rapporto personale, esteso anche ai Moody Blues, con l'Italia. Abbiamo suonato da voi solo una volta, mi sembra a Torino all'inizio degli anni '70, partendo il giorno dopo. Forse siamo capitati anche nella zona dei laghi, anche se non ne sono sicuro. Ma per quanto mi riguarda nel 1995 ho conosciuto alcuni ragazzi che avevano uno studio in una graziosa cittadina quale è Recco, vicino Genova. E' lo studio Molinetti e ci ho registrato un album solista e una colonna sonora: poi abbiamo inciso due album dei Moody Blues a Recco e Genova, con il contributo degli amici Danilo Madonia e Alberto Parodi. Attraverso lo studio negli ultimi 10 anni ho conosciuto tanti fan italiani dei Moody Blues, perché quando si è sparsa la voce che eravamo lì, in molti sono venuti a trovarci. Quando poi abbiamo dovuto rimasterizzare questi album degli anni '60 (un lavoro compiuto allo studio Logical Box di Genova) non avevamo trovato ancora una copia pulita dei vinili”.

E l'avete scoperta in Italia...

“Appunto, ed era in possesso di un nostro fan che abita a Bordighera . Aveva una collezione dei primi sette album nostri, tutti ancora da aprire e mettere sul piatto. Gli telefonammo dallo studio e gli chiedemmo se aveva piacere che i dischi fossero suonati per la prima volta allo scopo di rimasterizzarli. Era ben contento e gentilmente ci ha concesso i vinili per l'operezione. E' stato un fatto molto importante in modo da capire come rendeva la nostra musica su Lp”.

Concludiamo con i progetti in arrivo?

“Per quanto mi riguarda, sto compiendo un tour con uno spettacolo chiamato War of the Worlds scritto da Jeff Wayne, una grande produzione su una storia ambientata nel secolo XIX con tanto di costumi d'epoca, effetti speciali e Rock'n'roll. Con i Moody Blues ho inciso un album dal vivo appena uscito Live at the Greek Theater a Los Angeles, dal titolo Lovely to see you. Ma soprattutto sto lavorando molto con il gruppo dal vivo, più di quanto succedeva negli anni '60. Spero proprio sia di buon auspicio per suonare in Italia con i Moody Blues!”

Michele Manzotti

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