. Emiliano gucci
Elisabetta Beneforti intervista Emiliano Gucci



È da poco uscito per Lain il suo ultimo romanzo Sto da cani,intreccio ben costruito di destini, amori e rivincite nonché nitido affresco dell’Italia contemporanea.
“Emiliano Gucci ha fatto del dies cotidianus il palcoscenico su cui si intrecciano le nostre vite,senza cedere a qualunquismi. Sto da cani è l’epica dei personaggi minimi:ciascuno di noi è stato ognuno di loro almeno una volta e quello che non ci è successo, ci succederà. Senza scampo.” Valeria Parrella






Elisabetta Beneforti: Sto da cani è il tuo ultimo romanzo in cui si racconta di un mondo quotidiano fotografato in pochi ma efficaci tratti, fino a delineare una ‘commedia umana’. Le sue storie, i protagonisti (Lorenzo,Elisa,Giampiero), le ambientazioni appartengono in qualche modo a tutti i lettori. Quanto possiamo parlare di ‘minimalismo’ e quanto di ‘autobiografia’?

Emiliano Gucci: Intanto vorrei chiarire che quando scrivo non “calcolo” assolutamente gli ingredienti: quanta autobiografia, quanto minimalismo, quanta ironia, cattiveria eccetera, ci debba mettere. Mi piace mettermi al servizio dei personaggi che intendo raccontare, seguirli nelle loro storie, i loro comportamenti. Spesso succede proprio che raccontando personaggi minimi si rischia (si ha la fortuna) di coinvolgere più persone, più lettori. Le vicende, le emozioni più semplici, sono quelle che poi disegnano la vita di tutti. Magari non ne rappresentano i picchi estremi, ma costituiscono il tessuto della quotidianità. Non ho risposto sull’autobiografismo: sì, ne ho seminato un po’, qua e là nei vari personaggi, però questa volta ho mischiato molto le carte.


E.B.:Quale idea è contenuta in Sto da cani?

E.G.: La potenza dell’amore tra essere umani, è la prima grande idea che mi viene in mente. In Sto da cani vanno in scena persone molto diverse tra loro, con ambizioni più o meno condivisibili, o senza ambizioni, con sogni diversi, e diverse prospettive (o senza alcuna prospettiva). Emerge anche una provincia balorda, disperata, che non ha neanche fiato per pretendere qualcosa di bello dalla vita, ma soltanto si rifugia, cerca vie di fuga, emozioni a pagamento: gioco d’azzardo, alcol, prostitute, quello che capita. Alla base di tutto questo ci trovo un’urgenza, un’indigesta mancanza di rapporti umani. Un esempio: nelle prime pagine Giampiero si consola soltanto all’idea che suo figlio dormirà tra le sue stesse quattro mura, la notte dopo, altrimenti tenterebbe il suicidio…


E.B.: Considerando il tuo romanzo precedente Donne e topi, ci sono degli elementi che ritornano o con Sto da cani hai voltato pagina?

E.G.: Torna l’idea di guardare il mondo che corre da una piccola finestrella posta molto in basso, diciamo all’altezza del marciapiede, e torna la voglia di vedere senza filtri i disagi e le speranze di chi passa da lì. Non mi piace dare giudizi ma semmai pormi domande, sulle possibilità che la vita offre ai miei personaggi, e questa idea sicuramente torna, continua da Donne e topi. Torna il tema del precariato, che adesso è onnivoro, trasversale, dal lavoro è passato a mangiarsi i rapporti umani, la vita tutta. Invece ho voltato pagina rispetto ai personaggi che ho scelto di raccontare, che sono tutti molto diversi, e rispetto all’impianto narrativo, completamente nuovo e inedito per me.


E.B.: Colpisce la citazione da John Fante all’inizio del libro…..Cosa rappresenta per te questo grande scrittore americano? Ci sono altri padri letterari?

E.G.: Fante è stato l’autore che mi ha scosso e mi ha detto che si potevano trattare temi forti, minimi ma potentissimi, usando un linguaggio semplice, veloce, insomma moderno. Fante per me ha la potenza dei classici, con la forma umile del narratore di strada. Lui mi ha detto che si può parlare di casa, di genitori e di quotidianità, dei propri sogni e delle proprie debolezze senza vergogna, perché appartengono all’uomo, e per questo possono fare letteratura. Gli altri padri? Bukowski, più o meno per gli stessi motivi. Lui per me è stato ciò che il punk è stato nella musica: pochi mezzi per molte emozioni, la letteratura è scesa dal trono ed è tornata tra la gente. Poi ho fatto un percorso a ritroso… Bukowski mi ha suggerito Fante, che mi ha suggerito Hamsun, e poi Kafka, Dostoevskij, Gogol, tutti autori che apprezzo molto. Tra gli italiani Fenoglio, Bianciardi.

E.B.: Recentemente hai incontrato lo scrittore texano Joe R. Lansdale. Cosa ha significato per te?

E.G. :È stato interessante. Lo considero un grande della letteratura contemporanea, alcuni suoi romanzi mi sono piaciuti molto. Ha una capacità unica di usare i generi a proprio piacimento, senza farsi imbrigliare, anzi divertendosi, con il solo fine di raccontare storie pazzesche e sempre credibili. E poi mi fa ridere, mi commuove, insomma tutte le cose belle che un autore deve provocare in un lettore. Mi è sembrato una persona semplice, consapevole del proprio talento ma anche della fortuna che ha. Le cose che ha detto riguardo alla letteratura mi tornano tutte, sono stato contento di ascoltarle. Su altri temi, più sociali, mi sono reso conto che siamo molto distanti, ma credo che il problema neanche si debba porre: veniamo da culture molto diverse, lui Texas, io Calenzano… meglio parlare di libri.

E.B.: Pensi che nei tuoi romanzi ci sia traccia delle tue attività precedenti la scrittura, come il punk-rock e i fumetti?

E.G.: Credo di sì. Il punk va dritto al sodo, brucia gli orpelli per esprimere un’urgenza, senza troppi giri di parole. Penso la stessa cosa della buona narrativa: la scrittura, come la tecnica musicale, credo debbano essere soltanto un mezzo per esprimersi. Guai a intenderle fini a sé stesse, per me gli esercizi di stile non hanno significato. I fumetti hanno di fondo una stessa esigenza di economia, di sintesi, anche se contemporaneamente possono utilizzare altre vie, oltre alla parola, come il disegno, il colore. L’obiettivo è sempre quello di andare al sodo, senza tralasciare nulla ma nel minor tempo possibile.

E.B.: Nel 2004 sei stato nominato “scrittore toscano dell’anno”. Si può individuare una ‘scena fiorentina’ per la narrativa?

E.G.: Non parlerei di vera e propria scena, piuttosto di singoli, buoni autori che sono emersi o che stanno emergendo negli ultimi anni. Non mi pare che ci siano tratti così comuni, né ripetute occasioni di lavoro condiviso, che possano far parlare di scena. Pubblichiamo tutti con editori diversi e non esiste un punto di riferimento “fiorentino” che ci coinvolge, come invece mi risulta esserci, per esempio, a Bologna. Forse condividiamo un certo spirito, un approccio schietto e sincero alla scrittura. A me piacciono molto i romanzi di Marco Vichi, ed è anche colpa sua se ho perseverato nella strada della narrativa (ero suo fan, ci siamo conosciuti ed è stato uno dei primi a credere nel mio lavoro… siamo pure diventati amici, ma in questo la scrittura non c’entra). Mi è piaciuto molto Pessimi segnali di Enzo Fileno Carabba, e anche Pugni di Pietro Grossi, che vive a Milano ma è fiorentino, ed è all’esordio su Sellerio. Adesso sto leggendo Valerio Aiolli, altro fiorentino… e mi piace pure lui.


E.B.: Da Donne e topi verrà presto tratto un film: lavorare a una sceneggiatura porta nuove energie alla tua scrittura e al tuo immaginario?

E.G.: Sì, mi piace l’idea di scrittura finalizzata al grande schermo, ed una delle strade che batterò. Da qui a dire che Donne e topi diventerà un film, immagino che passerà un po’ di tempo. Ma intanto mettiamo in moto la macchina, rodiamo i motori: c’è un’opzione sul titolo e ci stiamo lavorando, a quattro mani con Jean-Philippe Pearson, sceneggiatore del Quebec prestato a Firenze. In fin dei conti la mia scrittura è anche figlia del cinema, perché figlia dei nostri tempi. E quasi mi viene da pensare che quella del cinema sia una sua predestinazione, un suo ritorno naturale a casa.


Emiliano Gucci è nato a Firenze nel 1975. Dopo una serie di lavori occasionali ha suonato in una punk-rock band e ha disegnato cartoni animati per il cinema e la televisione. Attualmente lavora in una libreria. Per Lain ha già pubblicato Donne e topi, finalista del Premio Fiesole 2005.

Elisabetta Beneforti

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