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John Lennon Unfinished music

John Lennon Unfinished music
Parigi, Cité de la Musique
dal 20 ottobre 2005 al 25 giugno 2006

Quando vai a visitare una mostra del genere hai sempre paura del feticismo. Non ho mai avuto lo spirito del collezionista, dell’adoratore di reperti e quindi sono andato al Parco della Villette un po’ titubante, sulla difensiva. E invece, appena entri, ti viene incontro l’anima di Lennon, un’anima inquieta, curiosa, sempre in movimento. E vedi, nelle foto, i luoghi dell’infanzia, quelli immortalati in “Strawberry Fields Forever” e “Penny Lane”, oppure ti soffermi sulle buffe e taglienti caricature degli amici e dei professori sui quaderni di scuola. Sui monitor puoi seguire documentari sull’Inghilterra nel dopoguerra, sulla storia dei Beatles mentre da un lettore CD appeso alla parete puoi ascoltare i brani e gli artisti che influenzarono John adolescente. E così ascolti Be Bop A Lula e pensi a come lui ha inseguito quel suono riverberato e distante pere tutta la vita. Sparse nel corridoio le chitarre, molte originali, altre in copia: le Epiphone, le Gibson, le Rickenbacker. Ti fa tenerezza quel magnete avvitato sull’orlo della buca, chi sa quanto fischiava quando lo attaccava all’amlificatore. Su una pedana c’è l’organo Vox utilizzato allo Shea Stadium, proprio lui, quello vero, rosso, con i tasti neri e bianchi, con le gambe metalliche anni ’60, una pianoletta da concerto all’oratorio. Poco più in là il mellotron di Strawberry Fields e una piccola regia con le console e i quattro piste sulle quali nacquero i capolavori. Ti fermi davanti a un quadretto apperso a un muro e vedi che è il foglietto di quaderno stropicciato con la prima stesura di Help, conservato alla British Library. Certo ci sono anche gli oggetti da collezionista. Un’intera vetrina è dedicata alla Beatlemania, con portacenere, tazze, bicchieri, portasigarette, giocattoli, pupazzetti. Ma vedere l’uniforme di Sgt. Pepper (anche se è una copia commissionata da Yoko negli anni Ottanta), ti fa una certa impressione. E poi c’è tutto il Lennon del dopo Beatles, tutti i film girati con Yoko, i concerti, le copertine di tutti gli album. Caspita, non vedevo Fly, Imagine, o Erection, oppure l’altro di cui non ricordo il nome, quella incredibile panoramica di culi famosi, da più di trenta anni, dai tempi eroici del Filmstudio.
La mostra, naturalmente, dà molto spazio anche a Yoko. La vedi negli happening alla galleria Indica, ripercorri gli esordi della sua carriera con il gruppo Fluxus. Ci sono un po’ di sue opere esposte, come una bellissima scacchiera “impossibile”: è tutta bianca e anche i pezzi sono tutti bianchi. Su una colonnina c’è un telefono bianco. Un cartello ti dice che se lo senti squillare puoi rispondere e parlare con Yoko. Ho alzato la cornetta e la linea c’era, credo che sia vero, probabilmente quando ha voglia chiama e parla col primo visitatore che trova. In una sala c’è il letto bianco della celebre protesta contro la guerra e, poco più in là, il pianoforte bianco di Imagine. Ti dicono che puoi suonarlo e sul leggio c’è lo spartito della canzone. Mi metto le cuffie, mi siedo e strimpello i primi accordi. E’ pazzesco. All’inizio non avevo capito perché le corde fossero disattivate e avessero collegato alla tastiera un piccolo expander. Il suono è quello del disco! Hanno campionato il piano di Imagine, suoni e senti in cuffia il suono del disco! Ci manca solo che Phil Spector venga a dirti come devi suonarla.
Unfinished music, la musica incompleta di una vita spezzata. Ti prende l’angoscia per la sua assenza, ti rendi conto che sono passati 25 anni, ti manca la sua ironia, la sua intelligenza. Pensiamo tutti la stessa cosa di Pasolini: che direbbero oggi, cosa farebbero, quale strada ci indicherebbero? Nell’ultima stanza proiettano il video di Central Park, Novembre 1980, i volti muti e angosciati, i dieci minuti di silenzio, vedi quei volti smarriti e vedi il tuo viso, vedi il tuo smarrimento. Fuori c’è una pioggia sottile, il cielo è grigio, è grigio il canale dietro al parco della Villette, sono grigie e nere le chiatte ormeggiate alla darsena.

Stefano Pogelli

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