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The Cure - Join the Dots
(Fiction/Universal)



Per chi ama i Cure sarà un 2004 da annotare come l'anno del grande ritorno: dopo aver abbandonato la nave delle major, la band di Robert Smith ha recentemente trovato accoglienza presso la neonata etichetta I Am Recordings, del produttore Ross Robinson, annunciando un album in uscita per l'estate e la rimasterizzazione di tutta la discografia ufficiale. E' un progetto imponente, forse stimolato dai tanti gruppi che ultimamente dichiarano a gran voce il proprio amore per vecchi capolavori come Disintegration e The Head on the Door, e trova inizio in Join The Dots, cofanetto uscito giusto in tempo per scaldare fan e mercato in attesa della messe autunnale. Si tratta di 70 lati-b, presi da più di 30 singoli sparsi in 25 anni di carriera, operazione che è quanto di più fuori moda si possa arhitettare nell'era del file-sharing, ma in fondo logica se si pensa all'impossibilità di evidenziare una mossa di Smith che durante tutti questi anni sia stata calcolata o decisa a tavolino. A questo punto è forse inutile ricordare la totale uguaglianza fra Robert Smith e l'intero progetto Cure, nato come trio punk nel '76 (con lui c'erano Lol Tolhurst e Michael Dempsey) ed evolutosi in un quintetto che lo ha visto diventare unico membro fisso ed autore. E' dunque naturale che sia lui in persona ad occuparsi del cofanetto, e che il risultato sia sequenziato in un perfetto ordine cronologico, approccio che l'industria utilizza sempre troppo raramente quando si tratta di mettere insieme box e compilation. La cura diffusa in tutta l'operazione è segno di quel rispetto smodato, a volte persino accondiscendente, che Smith ha sempre riservato al proprio pubblico, ma scorrendo le note di copertina non si trova niente di particolarmente rivelatorio, se non qualche piacevole aneddoto che adorna le numerose foto d'ordinanza. La ragion d'essere di questa raccolta deve tuttavia essere cercata non nell'amarcord, quanto nell'intento di tracciare la storia alternativa di uno dei gruppi più longevi del panorama mondiale. Emerge infatti una discografia parallela che, ascoltata nella sua interezza, contribuisce a rafforzare quell'idea di coerenza quasi manichea che i Cure hanno sempre perseguito, anche con risultati come The Top, album talmente brutto da stroncare la carriera di chiunque, eppure rivelatosi soltanto un incidente di percorso. E dunque sciogliamo subito i dubbi: Join The Dots è assolutamente sconsigliato a tutti coloro che dei Cure hanno maturato un interesse superficiale. La maggior parte di questi selezioni sono infatte destinate solo ai completisti, dato che girando per i quattro cd si trova spesso materiale di qualità non certo eccelsa. E' il caso di alcuni remix ingenui (la Just Like Heaven quasi identica all'originale) o semplicemente orrendi (la versione con cui Paul Oakenfold grazia Out of This World), o della cover di Young Americans di Bowie che ne diuisce la giocosa cialtroneria, ma soprattutto parecchi pezzi appena sbozzati (Play, Breathe, A Man Inside My Mouth), che si perdono in lente cascate di sintetizzatori e poco altro, quest'ultime spie di una produzione che nella prima parte della carriera tendeva a nascondere la sensibilità pop di Smith piuttosto che accentuarla, trend poi invertito senza successo con l'album Wild Mood Swings, album-simbolo di copiose perdite di fan ed un pauroso calo di vendite. Ma Smith l'Autore Pop riesce anche a spezzare le catene e si libera in How Beautiful You Are, triste ed euforica al tempo stesso, che non a caso ha mancato di un soffio la pubblicazione su LP, A Japanese Dream, costruita sulle stesse tastierine giocattolo di The Head on the Door, o nella fragile 2 Late, un successo sicuro se a suo tempo fosse stata messa nel lato A. Ma a far bella figura c'è anche la Hello I Love You doorsiana qui trasformata in power-pop talmente spudorato da far venire in mente i Cheap Trick, laddove altre cover confusionarie (Purple Haze di Hendrix, World in My Eyes dei Depeche Mode) confermano la sensazione di un sentire sonoro troppo chiuso in se stesso, e per questo incapace di reincarnarsi convincentemente in brani scritti da altri. Un insularità che può essere estesa all'intero universo Cure, e che da sempre ne è sia croce che delizia.

Bernardo Cioci



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