. Miles Davis - The Cellar Door Session 1970

Get up with Miles

Miles Davis - The Cellar Door Session 1970
(Columbia/Legacy – Sony)


“I’m taking your fuckin’ bass player”… Lo sussurra, o forse è meglio immaginare un rantolo, indirizzato ad un idolatrante Stevie Wonder, un Miles Davis all’apice della sua celebrità.
Siamo dalle parti dell’Apollo Theatre, 1969, Miles entra nel backstage. Tutti si girano e si ammutoliscono, si avvicina al grandissimo band leader, da quelle parti anche Betty Mabry.
Il bassista in questione è un giovanissimo Michael Henderson, diciannove anni, colonna del funk e del soul di quella fine anni sessanta (tra gli altri anche con Aretha Franklin…)
Henderson praticamente non sapeva nemmeno chi fosse Miles Davis. Un suo amico gli dirà qualche settimana dopo: “ Man, if Miles is calling you, you better get your bass and run; run to wherever he wants you to be” .
E così, inizia l’avventura di Henderson, con le sessions di Jack Johnson, e i Live. Compresa la settimana al Cellar Door di Washington, dal 16 al 19 dicembre 1970.
Ora integralmente pubblicata in un cofanetto meraviglioso, imperdibile, per chiunque ami la musica. Si intitola Miles Davis, The Cellar Door Session 1970 (Columbia/Legacy – Sony), 6 CD, tutte le serate, praticamente inedite, se si esclude il Live Evil, rimaneggiato dal produttore demiurgo Teo Macero. Quindi quel suono fantascientifico, incredibilmente funky ed incompreso allora, adesso è tutto li, intatto, rimasterizzato e accessibile.
Gary Bartz, John McLaughlin, Keith Jarrett, Michael Henderson, Jack DeJonnette, Airto Moreira. Folle pensare oggi ad una formazione di questo genere, c’è tutto… Il piano elettrico e l’organo Fender di Jarrett, lui che ha sempre detto di odiare il suono artificiale delle tastiere, pare essere impazzito, stralunato, inventivo, disarticolato, totalmente dentro il flusso di Miles.
DeJonnette, che ormai conosceva Jarrett da qualche anno almeno, suonando insieme in altri gruppi: la sintesi perfetta tra tradizione e modernità, un suono compatto, avanguardistico, da cui in molti hanno imparato, perfetto per volume, complessità e coesione. Quello che voleva Miles “A Buddy Miles feel with my technique” avrebbe detto DeJonnette allo stesso Miles stupito della perfetta sintesi ritmica proposta.
E poi Henderson, il ponte per la Great Black Music, con le sale da concerto gremite, da Detroit a New York. Gary Bartz, dimostrando di essere il miglior sassofonista da Wayne Shorter in poi, nella sua linea e con le aperture Funky necessarie a quel suono. McLaughlin in grado di non far rimpiangere il Jimi Hendriks tanto desiderato dallo stesso Miles.
Ecco. Non bastassero questi motivi, il cofanetto è imperdibile anche per quello che contiene tra le pagine del magnifico libretto. Tutti i membri della band sono chiamati a ricordare quelle incisioni e quei mesi alla corte di Re Miles. Proprio dalle parole di alcuni di essi si può ricostruire il progetto musicale che viene celebrato in queste incisioni. La ricerca quasi ossessiva della perfetta sintesi musicale, come un cuoco visionario alla ricerca degli ingredienti perfetti.
La musica raccolta in queste fantastiche 6 ore di musica è cruciale per comprendere che cosa avesse in testa Miles Davis in quegli anni. Sappiamo infatti che molto – se non tutto – il materiale inciso tra la fine dei sessanta e i settanta è stato in gran parte un progetto musicale sul quale ha in parte influito l’ego spropositato di Teo Macero, che lavorava sui nastri in fase di post produzione. Molta musica di Miles è sua nella misura in cui quello che veniva stampato su vinile era elaborato dalla creatività del montaggio di Macero. Quì siamo in presenza del genio dell’organizzatore e creatore Davis: lui, la sua musica e i suoi musicisti.

Enrico Bianda

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