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Joan Baez, Dark Chords on a big guitar
(Koch Records)



Da pochi giorni è nei negozi Dark Chords On Big Guitar, l’ultimo splendido album di Joan Baez, questo lavoro giunge a sei anni dalla pubblicazione del convincente Gone From Danger. Durante questo lungo periodo di attesa Joan si è dedicata ad alcune pregevoli collaborazioni mettendo la sua voce a disposizione di tre grandi artisti di folk americano: Pete Seeger, nel disco If I Had A Song, di Roger Mc Guinn, in Treasure From The Folk Den e di Ralph Stanley, nello splendido Clinch Mountain Sweethearts ma due eventi hanno segnato incisivamente la sua vita, la perdita della sorella Mimì e il vento di guerra che ormai dall’11 settembre soffia sugli Stati Uniti. Per una persona di grande sensibilità come Joan tutto ciò ha contribuito ad una piccola rivoluzione personalissima che con il passare degl’anni ha operato dentro di se, il legame con le sue radici è rimasto invariato, così come la sua voce ma ciò che si è modificato è il desiderio di farsi riscoprire, non più quindi una folksinger umile, ma una donna che con grande coraggio cerca di reinventare il suo stile e la sua musica,. Tutto ciò era riuscito al solo Johnny Cash con le American Recordings, ma ciò che impressiona in questo disco è il fatto che Joan riesca attraverso le canzoni di altri autori a far emergere tutta la sua sensibilità, trasmettendo quello che ha dentro di se, andando ben oltre i nostalgici revival, che affollano il mondo della musica. E’ probabile che Joan si sia ispirata proprio ai quattro dischi delle American Recordings di Cash per la compilazione di questo disco, il metodo di scelta è più o meno simile. Nei dischi di Cash, c’erano canzoni di Tom Petty, Simon & Garfunkel, Bonnie Prince Billy, Nick Cave, qui troviamo firme come Gregg Brown, Ryan Adams, Steve Earle e Natalie Merchant, insomma tutti grandi autori contemporanei. Al primo ascolto ciò che tocca profondamente è il fluire di sentimenti che si percepiscono sin dalle prime note, le atmosfere ricreano notturni d’inverno, dei piccoli quadri d’autore, in cui la semplicità dell’artista lascia trasparire i propri sentimenti. A rendere queste canzoni pregevoli c’è senza dubbio la suo voce, inconfondibile, più semplice e diretta che mai ma soprattutto ben lontana dai manierismi folk degl’anni sessanta, ogni brano scelto diventa parte di un organismo ben delineato che è questo disco. Funzionale a tutto ciò è senza dubbio la produzione, che ricorda vagamente quella di Oh Mercy, tuttavia questo disco è ben lontano dalla alambiccata perfezione del buon Lanois, ma si estende verso un sound più immediato e meno costruito in studio. L’inizio è davvero di ottimo livello, Sleeper, a firma Gregg Brown è una splendida ballata in cui l’approccio acustico apre una sorta di spazio poetico immaginario dove confluiscono gli stessi sentimenti di Joan che interiorizza il brano, facendolo suo completamente. Si passa poi alla dolce e toccante In my time of need, di Ryan Adams, cantautore americano e ex leader dei Wiskytown, questo brano è caratterizzato dalla prima e superlativa performance canora del disco, la voce si mantiene costante ma a colpire è il pathos con cui la Baez arriva quasi a riscrivere il brano, infatti l’andamento quasi gospel sembra esserle particolarmente congeniale in questo periodo della sua carriera. Rosemary Moore è penalizzata da un approccio complesso, infatti le atmosfere doloranti quasi jazz risultano poco immediate agli inizi ma già al terzo riascolto, si capisce che tutto è studiato per un testo abbastanza cupo, infatti parla di una donna a cui è morto il marito dopo una lunga malattia. Con tutta probabilità a condizionare le scelte di Joan sono stati i testi di questi brani, che ricompongono idealmente un mosaico di sentimenti che la stessa folksinger americana ha provato o prova nel suo cuore. Il primo pezzo movimentato del disco è la dolorosa Caleb Meyer, di Gillian Welch che racconta un tentativo di stupro, ha il tipico andamento country ma con una grossa percentuale di nuovi adattamenti, e mi riferisco alle percussioni in bella evidenza ma soprattutto al lavoro di chitarra che regge il brano. Motherland e Wings, sono i due picchi poetici in cui la tristezza si mescola ad una quiete rassegnazione, splendidi gli arrangiamenti ancora una volta che si sposano alla perfezione con i testi e la delicatezza di queste canzoni. La successiva Rexroth’s daughter è la canzone chiave del disco, da questa canzone infatti è tratto il titolo del disco, gli accordi scuri sulla grande chitarra, rappresentano i flussi emozionali in cui la tristezza rapisce il cuore. Il quasi rock di Elvis Presley Blues, dominato da una splendida chitarra dai sapori vagamente knopfleriani, e King’s Highway rappresentano i due brani quasi rock n’ roll del disco, la prima è in entrambi la voce di Joan fa traspare una certa nostalgia che in un contesto simile non guasta, almeno a livello interpretativo. In conclusione arriva il capolavoro assoluto Christmas in Washington di Steve Earle, una ballata lentissima in cui la voce di Joan si intreccia con amorevole dolcezza sui ricami di acustica e steel guitar, vengono messi in luce gli aspetti per così dire più naturalisti del disco, infatti sarebbe la colonna sonora di questo inverno, se con la neve ancora meglio. In sintesi questo è un disco pervarso da un intensità disarmante, in cui Joan dimostra ancora una volta di essere in grado di sfoderare il meglio di se, a dispetto di coloro che con troppa fretta l’hanno bollata come finita.

Salvatore Esposito


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