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Okkervil River-Black Sheep Boy
(jagjaguwar)
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Nel breve intervallo che divide la pubblicazione del secondo album del gruppo capitanato da Will Shelf da questa recensione, “Black Sheep Boy” ha fatto in tempo a catalizzare l’attenzione di tutta la critica colta e non solo, concludendo quella traversata iniziata con il precedente “down the river of golden dreams” e tesa a raggiungere un pubblico più vasto senza perdere la forte carica di insicurezza emotiva che caratterizza la se pur semplice scrittura di Shelf.
Tutto ruota intorno al cantante/chitarrista, una voce dal tono identificabile con qualche riferimento al primo Leonard Cohen.
E’ la carica adrenalitica e la potente alternanza di dinamiche che fanno di “Black Sheep Boy” quel piccolo capolavoro che altri hanno già indicato, immerso in un genere, denominato semplicemente americana, che ha la sua forza in una strumentazione mista di digitale ed analogico, di vecchio ed usato in un desolato senso di abbandono musicale.
Will Shelf appartiene a pieno diritto al nuovo cantautorato americano, quello cresciuto ascoltando il punk e quindi disincantato e con poche dorate speranze: Il disco ruota intorno al tono epico-melanconico di “A king and a Queen” mentre la successiva “ A Stone” che avrebbe potuto sostituire “wild horses” in “Sticky Fingers” dei Rolling Stones.
Shelf guida il sestetto con una mesta autorevolezza e affida gran parte della sua forza alle parole che sceglie con attenzione, preferendo immagini forti e cinematiche.
Senza dimenticare una matrice rock che gli Okkervil River affrontano con competenza il leader del gruppo ha messo insieme un album bello e di sostanza in cui i contenuti si fanno sentire e vengono prepotentemente a galla. Una magia aleggia intorno a “Black Sheep Boy” ed è creata senza particolari effetti speciali ed è questo uno dei pregi più evidenti di una band e di un leader da tenere d’occhio per il futuro, serio contendente allo scettro di una cantautorato alternativo sempre più in crescita ed in espansione.

Ernesto de Pascale


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