. Bert Jansch – The Black Swan

madeleine peyroux Bert Jansch – The Black Swan
(Sanctuary)
www.bertjansch.com

Most satysfing musical effort in the last few years by the Oblique Angle of the Contemporary UK Folk scene, a Gigantic figure since early sixties

Per essere l’autorità che conosciamo nello sfaccettato mondo del folk britannico Bert Jansch resta il dimesso e introverso chitarrista e cantante che quasi si meraviglia davanti al tanto parlare di lui oggidì. In “The Black Swan”, “ un viaggio senza fine nella vita”, come lui stesso spiega nelle note, si cerca di aggiungere altro percorso a quello già compiuto nel misterioso mondo della tradizione resa contemporanea e lo si cerca di fare senza alterarne il percorso naturale. Siano da esempio i brani tradizionali come “Watch The Stars” dove è difficile individuare il punto di non ritorno fra ciò che fu e ciò che è il folk. Jansch, però, da vera punta obliqua del Pentangolo, adotta una strategia tutta sua, quella che lo ha fatto sbagliare poche volte e cioè capovolgere i punti cardinali della tradizione per ripertire di volta in volta da ognuno di essi (come in “A woman like a You“ in cui ci appare lontanissimo e vicinissimo a ciò che furono gli anni di confine fra sessanta e settanta)
E oggi che le Jacqui Mc Shee e i Robin Williamson o i Clive Palmer di una volta sono le Berh Orton e i Devandra Banhart che si alternano a testa alta alla guida dl timone vocale del miglior album di Jansch degli anni duemila, viene da pensare che artisti come lui - che così poco hanno stravolgere ma quel poco lo hanno fatto così bene che ci pare comunque tantissimo – restino funzionali ai più giovani che continuano ad avere in un modo o nell’altro bisogno di una luce guida. In “The Old Triangle“ Bert sembra riaprire il libro delle black songs che solo due anni fa aveva affrontato – pur a testa alta – Alisdair Roberts, forse il miglior testimone della nuova generazione – con l’album “No earthly man“
(Drag City).
Una atmosfera di pacato e parsimonioso rigore pervade “The Black Swan “ e Bert non si fa prendere da tentazioni che nei due precedenti del duemila, “ Crimson Moon “ e “ Edge of a dream “ erano qui e là apparse nelle figure di Johnny Marr ( ex The Smiths ) e Bernard Butler. Qui c’è un po’ più di blues e il punto meno conforme al resto ci pare “ Texas Cowboy Blues “in cui tenta di emulare Bob Dylan ma finisce per suonare più vicino ai Dire Straits che ad altro per quelle limitazioni vocali che sono però anche il bello – un po’ nature – di un artista che non ha bisogno di effetti pirotecnici per farsi valutare e può permettersi il lusso di scrivere uno strumentale per due banjoes e flauto che potrebbe provenire da qualsiasi epoca. A compimento di un album dotato di grazie e dignità e la cui conclusione è affidata all’originale “ Hey pretty girl “, un brano che fra cinquant’anni suonerà fresco come oggi, al primo, convincente, ascolto.

Ernesto de Pascale

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