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Cognac Blues Passions 2005
(28-31 luglio 2005)

La musica:
Ci perdoneranno i puristi se cominciamo questa cronaca parlando di un bianco, Paul Oscher, primo armonicista di Muddy Waters ai tempi d’oro del Chicago Blues, assolutamente straordinario, in beata solitudine, nel cimentarsi all’armonica, chitarra, piano nella rilettura di classici quali “Sail on”, “Sugar mama” e “Blues before sunrise”. Un talento enorme che si é esibito nell’atmosfera quasi religiosa della cantina del castello Ochard, di fronte ad un pubblico pronto a tributargli le giuste ovazioni nonostante il caldo soffocante.

Terry Callier è un folk-singer da piccolo club, non un vero bluesman, ma ha suonato un set di grande fascino, sul palco grande soprannominato Blues Paradise, accompagnato da una band all’altezza rivelandosi a coloro che ancora non lo conoscevano. Da ascoltare il suo ultimo CD “Lookin’ out” (Universal 2004) ma soprattutto “Live at Mother Blues 1964” (Prominent records 2000).
Eddie “The Chief” Clearwater ha lasciato tutti a bocca aperta: negletto dalla critica più cieca – i critici sono per definizione sordi e ciechi, ma molto ciarlieri - come un bluesman alla frutta, buono giusto per qualche rock’n’roll, The Chief sfoderava la sua arte migliore, i blues lenti come “I came up the hard way” e “I’m stuck in lonesome town”, due piccoli capolavori, cantando con convinzione e lavorando assoli bollenti. Lo accompagnavano Los Straitjackets, un ottimo gruppo finto-ispano di rock’n’roll/surf, molto divertenti. Per Willie King, bluesman carismatico dell’Alabama, il discorso si fa più articolato. Si tratta d’artista complesso nonostante l’apparente semplicità della sua musica e del suo messaggio – è la povertà il vero terrorismo e solo l’amore tra gl’uomini e la fede in Dio può sovvertire quest’andazzo.
Al castello Ochard, con George Higgs, ha suonato un set acustico di sconvolgente bellezza, Downhome Blues vecchio stile, due chitarre, armonica e canto, tra “Spoonful”, “Fannie Mae” e “It hurts me too” dove la timidezza di Higgs s’è sciolta in un assolo notevole all’armonica. Di rinforzo sono apparsi Mudcat, molto migliorato, e Tim Duffy, il patron di Music Maker, mentre il pubblico si spellava le mani. Altro discorso quando King s’esibisce coi Liberators – un nome piuttosto bellicoso visto che i Liberators erano i bombardieri americani, detti anche fortezze volanti, che ridussero in briciole diverse città tedesche e giapponesi nella seconda guerra mondiale. I Liberators che hanno “bombardato” Cognac, suonando in quattro o cinque posti differenti, sono un gruppo modesto che sta in piedi grazie a King, all’elettrica piuttosto spontaneo, e al suo batterista. Molto interessante la cantante Pyeng Threadgill che a dispetto del nome esotico fa del jazz-blues creativo – notevole la sua rielaborazione di “Dust my broom” - con un gruppo piuttosto versatile. Il nome di Adolphus Bell non dirà niente a nessuno: trattasi probabilmente dell’ennesima scoperta di Tim Duffy, tutto sommato niente male, un one-man band che s’esercita su pezzi di varia estrazione come “Ain’t no sunshine”, “Johnny be goode” e “Stormy Monday”. Ancora tra gl’acustici, Franck Goldwasser, chitarrista francese trapiantato negli States da molti anni, e l’armonicista Johnny Dyer hanno suonato un buon set, molto composto.

Ha un pò deluso Mavis Staples, attorniata da un gruppo assai professionale, parlando molto ma soprattutto cantando poco, e poco Blues tra “Will the circle be unbroken” e “The weight”. I Mannish Boy son risultati leggermente dispersivi: la classe cristallina di Finis Tasby al canto, Leon Blue al piano e Kid Ramos alla chitarra ha salvato baracca e burattini, tappando le falle. Momento topico: Ramos spicca il volo in “As the years go passing by” e quando Tasby riprende a cantare alla fine dell’assolo di Ramos, s’é capito che il Blues, insieme agl’anni, era passato da quelle parti. Sempre in forma il navigato Lazy Lester, meno lucido dal vivo che su disco, in questa occasione felicemente accompagnato da uno dei padri del blues esagonale, l’armonicista Benoît Blues Boy. Otis Taylor, con la figlia Cassie ora al basso, e due violonisti, sembra ripetersi. L’idea delle due viole potrebbe maturare qualche novità, ma la sensazione é che Taylor riproduca all’infinito il suo trance-blues, accativante ma sostanzialmente immutabile.

The Lee Boys suonano in uno stile vicino a Robert Randolph, il bambino prodigio della Steel-guitar; nella loro musica sembra esserci più rock che soul o gospel, la chiesa ha definitivamente lasciato il posto ad una visione laica della steel. Peccato per l’alfiere dell’acid jazz contemporaneo, il sassofonista Roy Hardgrove il quale é sembrato, coi suoi RH Factor, attaccare un pezzo fusion dietro l’altro e tirare avanti un’ora senza molto costrutto. Da tener d’occhio Bjorn Berge, un chitarrista-cantante norvegese dall’aria piuttosto arrabbiata che ricorda Richard Johnston. Tra gl’autoctoni, veramente notevoli Bulldog Gravy, gruppo blues-roots già originale nella formazione, due percussionisti, contrabbasso, armonica, chitarrista slide e cantante con chitarra acustica. Sophie Kay, chitarrista cantante, offre un blues dalle tinte fortemente francofone, canzone d’autore si direbbe in Italia, veramente orginale. Ze Bluetones hanno vinto il premio come gruppo più promettente del festival, un riconoscimento dell’organizzazione per incoraggiare i giovani a suonare il Blues.

Maglia nera, dispiace dirlo ma la cronaca lo esige, a Sugar Pie de Santo. Difficile dire cosa passi per la testa di questa cantante dal curriculum onusto di gloria. S’é esibita – il verbo cade a pennello – sempre nello stesso sketch. Dopo aver assestato un certo numero di battutazze oscene, carpiva un malcapitato astante di sesso maschile, s’é tirata su la gonna e ha cominciato a strusciarglisi contro, ohibò, a gambe aperte. Anche facendo astrazione del fatto che la de Santo ha settanta anni e passa, per sovrammercato, la qualità delle sue interpretazioni canore non faceva onore al suo passato. Dopo un momento di stupore, sia pubblico che musicisti hanno fatto, con molta eleganza, finta di niente. Non spa(e)rate sulle vecchiette.

... e il resto

Miglior festival di Blues estivo: ormai Blues Passions si porta dietro questa nomea, una bella reputazione che va comunque onorata. Lo scenario é un pezzo pregiato di vera campagna francese, non lontano dall’Atlantico, per una quattro giorni di musica, così varia e intensa da lasciare vagamente storditi. Cominciamo con i punti negativi che sono in quantità minima. Questo inizio di secolo é, in questa parte dell’emisfero, sotto alta sorveglianza; a pochi giorni dalle bombe di Londra, governare qualche migliaio di spettatori diventava sforzo improbo e Cognac é tradizionalmente stato un festival dove la sicurezza gioca un ruolo efficace ma defilato, in ossequio al principio del festival per tutti, dal fanatico del Blues al coltivatore di meloni – eccellenti in questa fetta d’Europa – insomma musica per grandi e piccini. E la security é stata perfetta o quasi, anche se nessuno ha capito perché i fotografi fossero i più tartassati, con le regole della “piscina” sotto il palco che cambiavano ogni ora. Risultato: impossibile fare foto senza discussioni, rimproveri e qualche spintone. Tenuto conto che la stampa porta in palmo di mano questo festival, forse sarebbe meglio ripensare questo dettaglio. Che resta pur sempre un dettaglio, affogato in tanto Blues con delle stelle luccicanti come Paul Oscher, Terry Callier, il vecchio ma validissimo Eddie Clearwater. Piccoli suggerimenti: si potrebbe aumentare la presenza giovanile, cioé lavorare sulle scuole ed università prospicenti, per evitare una certa aria da gerontocomio felice. Si potrebbe invitare qualche gruppo europeo in più per evitare la dominazione franco-americana. Comunque sia, Cognac tien salda lo scettro di miglior festival estivo in Europa; al di là della bellezza intrinseca del luogo, non vanno dimenticati i concerti gratuiti che son la maggioranza, le riduzioni per studenti, disoccupati ed altre categorie meno fortunate; i prezzi comunque contenuti, 85 euro per 20 concerti paganti non concomitanti, più di 60 artisti per quattro giorni, le conferenze e i masters musicali. Per l’alloggio si può scegliere tra il campeggio, bed & breakfast – qui chiamato “Chez l’habitant” – cinque o sei hotels a tre/due stelle da cui si può raggiungere il festival a piedi.
Date un’occhiata al sito www.bluespassions.com, Cognac dista 120 chilometri da Bordeaux, verso nord-est, forse un pò lontana dall’Italia; Parigi è a due ore di treno, ma ne vale assolutamente la pena.

Luca Lupoli


Foto di Luca Lupoli
© Luca Lupoli, 2005

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