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The Kenny Clarke – Francis Boland Big band - Off Limits (Rearward/ishtar)

The Kenny Clarke – Francis Boland Big Band featuring Carmen Mc Rae – November Girl
(Rearward/ishtar)
www.ishtar.it




I Sessanta furono l’ultimo decennio in cui proliferarono le jazz big band. Sull’onda di quelle di Duke Ellington e Count Basie ne nacquero di modernissime ed eccitanti come quella di Oliver Nelson, di Don Ellis, di Thad Jones e Mel Lewis, di Buddy Rich, di Maynard Ferguson che univano al linguaggio più propriamente jazzistico le sollecitazioni del pop, del rock, della musica indiana, della psichedelia e tutto quel che di buono si muoveva in quel decennio intorno alla musica. Perfino artisti insospettabili come Woody Herman, di bel altro background, eccitati dai tempi moderni, ne misero in piedi una propria con un repertorio insospettabile solo pochi anni prima. Per le Big Band il problema non era tanto registrare un disco quanto suonare dal vivo; esse, infatti, erano richiestissime per colorare quest’ o quel disco e la formazione di una di esse non era cosa impossibile ma, quando si trattava di scendere per strada, la logistica si faceva complicata e le richieste economiche sostenibili solo da questo e quel festival.
L’Europa del Jazz nei sessanta, nell’aprire le proprie larghe braccia agli statunitensi, favorì la circuitazione delle big band e la nascita di tanti festival ne permise la durata. Molti jazzisti americani, seguendo l’esempio di chi prima di loro aveva preferito il vecchio continente al nuovo, optarono per lunghe residenze in Europa, soprattutto in quella continentale.
Nacquero perciò Big Band miste, formate da musicisti americani e europei - un bel regalo alla musica, va ammesso! – che crearono contaminazioni sulla base di uno stesso lessico. Il suono del jazz europeo, così distante da quello americano, più mentale e organico, sempre ben disposto verso la sperimentazione si intersecò bene con il groove dei neri per risultati a volte affascinanti. La Big Band del batterista di colore Kenny Clarke – uno degli inventori della batteria moderna - e del pianista belga Francy Boland è da annoverare fra queste felici fusioni. Per poche stagioni i due – grazie a una formazione composta da elementi di varia provenienza geografica e estrazione jazzistica – lavorò duro e fermò su nastro alcuni splendidi momenti.
Quando nell’autunno 1970 l’ensemble registrò i due dischi in questione era al top della forma e in special modo in “Off Limits “ è straordinario. Delle sette composizioni che costituiscono l’album solo tre sono a firma del pianista mentre le rimanenti quattro spaziano per autore e provenienza: l’iniziale “Wintersong” è di un giovanissimo John Surman, all’epoca già autore di alcuni oscuri album per la Deram/Decca, “Astrorama” è del violinista Jean Luc Ponty, in cui giorni in odor di collaborazione con Frank Zappa, “Osaka Calling” è di Albert Mengelsdorff, che negli anni a venire avrebbe scritto pagine molto belle del jazz germanico, mentre “Our kind of Sabi” è firmata dall’organista francese Eddy Louiss. A eseguire questi brani ci sono musicisti dalla forte personalità come Tony Coe, sassofonista e clarinettista che negli anni a venire si sarebbe lanciato in territori impervi, l’abile trombettista slavo Dusko Gojkovic, la cui carriera solista è bella e complicata e che qui divide il leggio con Art Farmer, l’elegante Ronnie Scott al tenore, spalla a spalla con Billy Mitchell, Sahib Shihab al flauto. Una super band di americani e europei, insomma, come poche ne giravano all’epoca. The Kenny Clarke Francy Boland Big Band non ebbe vita facile; già nel disco con Carmer Mc Rae, del Novembre dello stesso anno, 1970, pare un po’ fuori fuoco anche a causa di un repertorio mal tagliato che la cantante nera interpreta pur sempre con classe. L’orchestra si muove su arrangiamenti un po’ troppo standard per le proprie potenzialità. Spiccano “Just Give me Time “ ( un brano che sarebbe poi stato incluso nella colonna sonora del film francese “L’invito” uno spaccato sarcastico e graffiante sulla società medio borghese dei primi settanta ) e “’Tis Autumn“ e “A handful of Soul“. Dopo tre brani però il gioco è tutto alla luce del giorno e ci sono poche sorprese.
I due album ,prodotti da Gigi Campi, sono una felice sorpresa se ascoltati di fila, pur con le luce e ombre descritte. Dei due, “Off Limits “ resta imperdibile e affascinante, consigliatissimo anche 34 anni di distanza. Un album che piacerà anche a chi non ama il jazz convenzionale e a quelli che cercano le contaminazioni. Un bell’esempio ante litteram da riscoprire.


Ernesto de Pascale

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