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È STATO IL BLUES A PORTARMI QUA
Intervista a Charlie Musselwhite

di Massimo Baraldi


Sono trascorsi 40 anni esatti dall'uscita di "Stand Back! Here comes Charley Musselwhite's South Side Band", il suo primo album, ma anche oggi a Charlie Musselwhite le cose da dire certo non mancano... nominato per 5 categorie, il suo ultimo "Delta Hardware" ha letteralmente sbancato alla 28° edizione dei Blues Music Awards aggiudicandosene ben 4: miglior armonicista, "Album dell'anno", "Canzone dell'anno [Church is out]" e "Miglior album di blues tradizionale".

Un passato avventuroso quello dell'ex-ragazzo di Kosciusko, Mississippi, speso tra i juke-joint del profondo Sud, la Memphis degli anni '50 e i bassifondi di Chicago... se non a lui, a chi altri avrebbe potuto ispirarsi Dan Aykroyd per dar vita al personaggio di Elwood Blues? Un'esistenza consacrata al blues, la sua, cominciata in anni in cui il colore della pelle faceva la differenza, vissuta come fosse una canzone e "suonata" accanto ad amici come Muddy Waters e John Lee Hooker [che, tra le varie cose, gli fece da testimone il giorno delle nozze]. Charlie si ritrova ora con due dozzine di album sulle spalle, una lista di collaborazioni troppo lunga per poter essere anche solo pensata e una luce nello sguardo che lo fa sembrare il giovane ribelle di un tempo.

Alla band di Musselwhite è affidata l'apertura del Festival varesino "Costa Fiorita Live", quando arrivo al "Centro del Lago" di Buguggiate lui è alle prese col soundcheck. Lo attendo in compagnia della moglie Henrietta e dopo qualche minuto eccolo venirmi incontro col suo passo tranquillo da vecchio gentiluomo, ravviandosi con cura i capelli all'indietro. Mi tende la mano con un sorriso e un guizzo vivace negli occhi azzurri: "Ciao, io sono Charlie.".

CM: Tu fammi le domande e io ti rispondo.

MB: Ciao Charlie! Penso che tu e Mike Bloomfield siate stati tra i primi bluesmen bianchi a frequentare i club per neri del profondo Sud, ai tempi della segregazione razziale. Ti va di parlare di quei giorni?

CM: Io è da là che venivo quando mi trasferii nell'Illinois, ed è a Chicago che conobbi Mike Bloomfield… però dubito che lui abbia mai messo piede dalle mie parti! Certo, nella zona Sud di Chicago c'è stato, questo sì… ma non in quella degli Stati Uniti, almeno per quanto ne so [scoppia a ridere]! Io, invece, è laggiù che sono cresciuto. Una volta me ne stavo lì a raccontare a Little Milton di come non vedessi l’ora di lasciare il Sud, tanto ero stufo di miseria e segregazione... ma, arrivato a Chicago, ebbi l'impressione che le cose fossero messe altrettanto male, se non peggio! Entrambi ci siamo fatti una gran risata, ma era tutto vero, che c’erano problemi anche al Nord lui lo sapeva... poi, bè, allora trovavi persone a posto e altre piene di pregiudizi, e io con queste ultime non legavo. Mia madre mi ha insegnato che siamo tutti figli di Dio: se non rispetti la gente, non rispetti il lavoro di Dio… quindi devi rispettare chiunque. O, quantomeno, dargli una possibilità! [ride]

MB: Big Joe Williams ti considerava uno dei migliori armonicisti “country blues”, alla pari di Sonny Boy Williamson. È stata dura guadagnarti la stima e il rispetto di artisti come lui? Stiamo parlando degli anni '60, tempi molto difficili dal punto di vista razziale.

CM: Diciamo che non ho mai cercato di diventare qualcosa di diverso da ciò che sono. Ho imparato a suonare da solo, all'inizio, poi da gente che bazzicava Memphis, Tennesse, come Will Shade, Johnny Moment e Willie Bee. A Chicago conobbi Big Joe, lui aveva suonato e registrato col primo Sonny Boy John Lee Williamson. Io e Joe dividevamo una stanza e facevamo date in giro: è così che diventai il suo armonicista. Eravamo grandi amici: entrambi venivamo dallo stato del Mississippi, sui pregiudizi sapevamo tutto quello che c'è da sapere e da certa gente stavamo alla larga... non ho mai avuto problemi per via di questo. Ho vissuto e lavorato in aree “nere”, ma lì eravamo tutti amici perché, nati negli stessi luoghi, parlavamo la stessa lingua, mangiavamo lo stesso cibo e ascoltavamo la stessa musica.

MB: Sei stato svezzato col country blues da tutori come Furry Lewis e Will Shade. Sei cresciuto a Chicago con Muddy Waters, Otis Spann e Big Walter Horton che ti tenevano d'occhio. Probabilmente hai le tue ragioni per cantare il blues, ma non posso fare a meno di pensare che tu abbia ricevuto un dono molto speciale dalla vita.

CM: Non posso esserne certo, ma è bello pensarlo... se è vero, bè, me lo prendo! Io spesso ripeto che il blues “si è impossessato” di me… è davvero una specie di regalo. Non so come sono arrivato fin qui, è il blues che mi ci ha portato. Ho anche scritto una canzone al riguardo, “The blues overtook me”. Queste cose sono un mistero, proprio come la vita.

MB: Charlie, hai diviso il palco con un mucchio di musicisti e, tempo fa mi sono ritrovato a parlare di te con uno di loro, il chitarrista di Atlanta, Georgia, Danny “Mudcat” Dudeck. Questo è ciò che ha detto: “è stata una grande opportunità accompagnarlo; è un tipo davvero cool, estremamente generoso per quel che riguarda le sue influenze!”. Molti musicisti suonano solo per denaro, ma non è questo il tuo caso: c'è una sensazione di profonda sincerità in ciò che fai, dai l'impressione di considerare la musica come un piacere da condividere.

CM: Forse “piacere” non è la parola giusta… certo, in parte lo è, ma ci sono anche connessioni con quello che è la vita. Se non avessi fatto carriera nella musica e ora fossi il commesso di un supermercato o qualcosa del genere, suonerei comunque, anche se nessuno oltre a me fosse disposto ad ascoltarmi! Conobbi il blues attraverso la radio e i dischi, ma anche direttamente dai musicisti di strada a Memphis e dai canti di chi lavorava i campi: mi faceva stare bene, e così pensai che forse imparare a suonarlo mi avrebbe fatto sentire ancora meglio. È per me stesso che ho cominciato... ero un ragazzino e me ne andavo nei boschi a suonare i miei blues. Poi le cose sono andate come sono andate e oggi sono qua, ma avrei continuato comunque e ovunque mi fossi trovato, in pubblico o da solo nella mia stanza. È una cosa del cuore, non c'entra coi soldi o l'attenzione. Mike Bloomfield mi disse che nulla gli piaceva quanto trovarsi in un ambiente pieno di persone ed essere al centro della loro attenzione… sentirlo mi diede i brividi, perché io sono esattamente l'opposto! Non è di quello che ho bisogno, né di suonare per soldi o altro... amo la musica, semplicemente. Sai, questo tipo di musica, nello specifico, più che una moda è qualcosa che riguarda la vita e il cuore, capace di racchiudere in sé tutto ciò che la vita possiede. Se sei giù e stai passando tempi duri, ti darà conforto... se sei “su” farà muovere il tuo corpo: il blues è sempre lì, per te e per farti compagnia attraverso la vita.

MB: In “Clarksdale Boogie” canti: “Puoi trovarmi dove suonano del buon blues” e certo non è una bugia: sei uno dei più richiesti session-man in circolazione! Hai suonato la tua armonica con Tom Waits, Ben Harper, Bonnie Raitt, giusto per menzionarne alcuni. Si direbbe che tu sia un passo avanti rispetto alla “concorrenza”! Perché?

CM: Non penso mai alla competizione e, credo, nemmeno la maggior parte dei veri musicisti lo faccia e… non saprei davvero il perché. Vedi, in realtà queste persone sono i miei amici, suppongo sia per questo che mi cercano... alle persone che non conosco, bè, non passa nemmeno per la testa di chiamarmi (ride)... ma vorrei che lo facessero, perché suonare con altri artisti è una meravigliosa opportunità di sperimentare stili e impostazioni diverse! Una sorta di sfida, per me. L'esperienza con Tom Waits è stata divertente, lui è davvero aperto a tutto e non sai mai cosa succederà. A volte nemmeno ti dice in che chiave si trova... semplicemente attacca a suonare e tu devi trovare il modo di stargli dietro, e di farlo in fretta!

MB: Che tipo di persona è Tom Waits?

CM: Tom Waits ha un lato serio, uno divertente e molto cuore. È un uomo profondo, sempre concentrato sulla vita e capace di guardarla da una sua prospettiva tanto personale da far sì che nessuno di noi riesca a focalizzarla. Alcune sue canzoni è da lì che provengono, e sono sempre sincere: che si tratti di qualcosa di buffo oppure no, sono piene di verità. Lui è capace di farti ridere o meravigliare, grattare la testa o pensare, e credo sia proprio questo ciò che più gli preme.

MB: “Delta Hardware” e “Sanctuary”, i tuoi ultimi due albums, sono stati pubblicati dall'etichetta di Peter Gabriel. Cosa pensi del progetto “Real World” e dei loro sforzi per promuovere e valorizzare la musica roots?

CM: Alla Real World possono fare un buon lavoro a un piccolo livello, ma non spingersi oltre. Come nel caso di “Sanctuary”: un ottimo album che ha ottenuto un sacco di recensioni positive e premi, ma non sono riusciti a fare nulla per gestirlo.

MB: Perché, secondo te?

CM: Penso che per fare il loro business abbiano una formula, e che la applichino indistintamente a ogni lavoro. Hanno un solo modo di operare, piuttosto limitato. La loro decisione di farmi incidere un secondo disco mi ha stupito: col primo avrebbero potuto fare molto di più, eppure se lo sono lasciato sfuggire dalle dita perché non sono disposti a dedicare più di un anno a un prodotto! Comunque sia, devo dire che in Real World lavora un sacco di gente in gamba: forse non sono in grado di dirigere lo show, ma fanno del loro meglio. Con le mani legate non potrebbero certo andare molto oltre.

MB: Negli anni '30 la Polvere ha spazzato via la popolazione dell'Oklahoma, oggi New Orleans è stata inghiottita da Katrina e tu canti che “L'acqua nera è il segno dei nostri tempi”. Vedi qualche similitudine nelle due tragedie?

CM: Non so molto del Dust Bowl e di come il governo abbia gestito la situazione, ma so che nel caso di Katrina non ha fatto un buon lavoro. L'amministrazione di Bush assegna incarichi come fossero favori, indipendentemente dalle reali capacità degli individui, e così abbiamo personaggi che ricoprono posizioni pur non avendo la benché minima idea di come comportarsi. Questa è una cazzata colossale, sai, perché un mucchio di gente è morta a causa della loro incompetenza, e oggi ce n'è altrettanta che soffre. La lista di quello che non va sarebbe lunga e, se anche potessimo sbarazzarci di Bush tra qualche giorno, non sarebbe mai abbastanza presto per me [ride]! In fondo, qualunque cosa dovrebbe essere meglio di Bush! Per quello che mi riguarda vorrei B.B. King per Presidente, io è per lui che voterei. Se pensi a ciò che Bush ha fatto all'America, B.B. sarebbe assolutamente brillante: è davvero un brav'uomo, ma forse anche troppo intelligente per decidere di accettare un posto del genere [ride]!

MB: A sorprendermi è il fatto che nessuno parli più di New Orleans, oggi. Si sarebbe portati a pensare che tutto sia a posto, ma sono certo che non è così.

CM: Le notizie in America sono gestite dalle Corporation, certo non si può parlare di “stampa libera”. È il governo a decidere cosa si deve dire, governo e stampa lavorano “mano nella mano”. Si pensa che l’America stia dalla parte della gente, ma non è più così, si è spostata dove girano i soldi: le Corporation sono un buon business e il governo ci va a nozze. Questa, almeno, è la mia opinione. Certo, potrei pure sbagliarmi… ma non penso proprio.

MB: Tornando alla musica, cosa ascolti?

CM: Amo qualunque cosa provenga dal cuore e sia capace di trasmettere emozioni, tipo quella che oggi chiamano “world music”: sembra che ogni cultura sia in grado di esprimere qualcosa di profondo, ed è questo ciò che cerco. Può venire da un chitarrista che se ne sta lì per i fatti i suoi, da una voce o da un paio di tizi che tornano dal lavoro… è difficile da scovare, ma se ti ci metti d’impegno qualcosa trovi. Una volta, a Istanbul, ho visto questi due musicisti ciechi, il primo si accompagnava con un tamburo, il secondo con uno strano strumento e cantavano in turco. Le parole non potevo capirle ma, credimi, quello era il blues più tosto che abbia mai sentito! Poi, bè, ascolto musica gospel, jazz e, ovviamente, blues. Non amo il jazz moderno e la fusion, io sono rimasto a Jack Mc Duff [ride]! La musica hillbilly mi piace molto, il country di oggi è pop ad alta digeribilità... io sono fermo agli anni ’40 e ’50, con Hank Williams e tipi del genere! O al rockabilly di Charlie Feathers, Billy Lee Riley e Johnny Burnette.

MB: Ascoltando i tuoi album dai l'impressione di viaggiare lungo un tuo personale itinerario musicale, esplorando le frontiere della musica roots e di tanto in tanto inviando cartoline di ciò che vedi, sempre con la tua firma ben impressa. Mi chiedo dove tu stia andando...

CM: Bè, non sono certo le idee a mancarmi ma, non sapendo cosa farò in futuro, le terrò per me fino a quando avrò deciso. Sai, uno degli aspetti migliori del blues è che puoi mischiarlo con altre cose, e ciò che più mi interessa è trovare nuovi modi per essere tradizionale. La sperimentazione è naturale nel blues… tu prendi Robert Johnson, ad esempio: ciò che proponeva ai suoi tempi era completamente nuovo. Ho ascoltato dei nastri di T-Bone Walker, registrati ad un party privato: sebbene si tratti di standards appartenenti a generi diversi, sono tutti caratterizzati da un’intensa connotazione blues. Sono certo che se B.B. King cantasse “Happy Birthday” suonerebbe come un blues, lui sa dare quel tipo di inflessione a qualunque cosa! Questo è ciò che faccio: raccolgo elementi sonori diversi, aggiungo il blues e ascolto il risultato… diciamo che li vesto di blues. Sai, non ci si può liberare del blues: il blues è forte, non morirà mai e rende ogni cosa migliore. Quindi, restate sintonizzati! E grazie per le parole gentili.

MB: C’è qualcosa che vorresti aggiungere?

CM: Sono felice di sapere che la gente apprezza la musica e, certo, vorrei far loro qualche raccomandazione di persona. Venite presto, andate via tardi e portatevi le scarpe da ballo se vi va di ballare, ma sappiate che potete pure starvene seduti ad ascoltare… se poi avete davvero talento potete anche ballare e ascoltare! Spero che il pubblico starà bene stasera, perché noi sul palco ci divertiamo per davvero.

Buguggiate, 27 giugno 2007, © Massimo Baraldi

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