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The Arctic Monkeys – Humbug
(Domino, Warner Music)
www.arcticmonkeys.com

The Sheffield quartet has found his maturity with this pure rock album, made of “dark” sound, sharp guitars and some great slow songs.

Dopo due anni di pausa artistica, segnati anche da progetti musicali paralleli, gli Arctic Monkeys tornano sul mercato discografico e ottengono un doppio importante risultato; riescono nuovamente a scalare le classifiche (europee) e soprattutto fanno uscire un disco di ottima qualità. Humbug non ha quella carica rivoluzionaria e leggermente adolescenziale di quel Whatever People Say I Am che da MySpace aveva portato alla ribalta il gruppo di Sheffield. Questo disco, il cui titolo vuol dire tutto e niente – ipocrisia, caramella alla menta, sciocchezze… e la copertina non aiuta – suona inevitabilmente più maturo e pone di fatto gli Arctic Monkeys in una luce differente. Se fino a due anni fa i quattro inglesi dovevano dimostrare di non essere un fenomeno passeggero, oggi questa prima fase si può dire definitivamente terminata.
L’inizio di Humbug è travolgente: My Propeller prende il via con un potente riff che presto si trasforma in un giro di basso con un inedito suono “oscuro”, il singolo Crying Lightning abbandona i fortunati ritornelli dei due album precedenti; è un vero pezzo rock, fatto di chitarre affilate, suoni spigolosi, con un sottofondo nuovamente cupo. L’ispirazione rock continua con Dangerous Animals, seguono la coinvolgente distorsione vocale di Secret Door – dove sembra di sentire i “vecchi” Monkeys – e i taglienti riff di Potion Approaching. A questo punto va sottolineato quello che probabilmente è il maggior salto di qualità fatto dal gruppo: la capacità, che mancava nei due dischi precedenti, di proporre dei buoni pezzi “lenti” senza che questi diventino soltanto dei banali riempitivi. Probabilmente gioca a favore del gruppo l’utilizzo dei prodigi della tecnologia sonora, con microfoni distorti, ritocchi al computer e quant’altro, ma le idee questa volta ci sono, ecco così Fire And The Thud, il melodico (e molto bello) inizio di Cornestone e il suono lo-fi di Dance Little Liar. Chiudono il disco l’infuocata All The Pretty Visitors, arricchita dall’ormai classico (si pensi a gruppi come i Muse o i Killers) ritornello corale e – degna conclusione – il pezzo più interessate e forse più bello dell’intero album: The Jeweller’s Hands; una vera e propria sintesi di Humbug, un arrangiamento di tastiera, un cantato ancora una volta lo-fi, e una conclusione impreziosita da un coro in toni bassi, ripetuto come una cantilena, mentre chitarre disperate e batteria si rincorrono in un crescendo finale. Insomma, con Humbug gli Arctic Monkeys hanno trovato la loro sintesi, fatta dai graffianti suoni brit a cui avevano abituato il pubblico e da una nuova sensibilità oscura, quasi romantica, che ha permesso al gruppo di Alex Turner di superare i propri limiti più evidenti; al cantante è sicuramente servita l’esperienza alternativa del 2008 con i Last Shadow Puppets; questo progetto a suo tempo divise la critica, oggi se ne sentono le conseguenze in un gruppo collaudato, e il risultato, per gli Arctic Monkeys, è da incorniciare.

Matteo Vannacci

1. My Propeller
2. Crying Lightning
3. Dangerous Animals
4. Secret Door
5. Potion Approaching
6. Fire and the Thud
7. Cornerstone
8. Dance Little Liar
9. Pretty Visitors
10. The Jeweller's Hands

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