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Mátyás Pribojszki Band
(Flavours - PMCD 002/2004)



Discorsi sulla qualità del Blues europeo se ne son già fatti molti e la libertà d’opinione rimane comunque un diritto intangibile. Sarebbe difficile però negare che anche i « vecchi» europei, come ebbe a definirci un uomo politico americano, hanno molti gruppi che non temono rivali e ormai non si contano più le collaborazioni, le fusioni tra musicisti nati in questo continente e quelli del nuovo mondo. Ebbene, aggiungete un posto a tavola! Si tratta dell’armonicista magiaro Mátyás Pribojszki, talento appena trentenne, ma già piuttosto avveduto. L’ascolto di questo Flavours fa capire qual è il suo punto forte, ossia la personalità oltre a robuste capacità tecniche. Invece di farsi prendere da smanie acrobatiche, come avviene per tanti suoi colleghi armonicisti, Mátyás privilegia una visione generale che si rifà non solo ai grandi maestri dello strumento, ma anche alla musica nera in generale. Lo aiuta un gruppo veramente straordinario, Eric Kovács al piano, József Adamecz alla batteria e Csaba Pengö al contrabbasso, molto orientato verso il jazz – per ragioni storiche, l’Ungheria é sempre stata un crogiuolo d’ottimi musicisti - dove non si sente la mancanza della chitarra, presente in tre pezzi solamente. Per esempio, il giro di basso in «She’s 19» risulta accattivante senza esser banale, mentre in «Beauty Queen» c’è un lavoro di batteria in levare sopraffino e in «TV Boogie» un assolo di piano magistrale. Aprendo una parentesi economica, bisogna anche dire che musicisti di tale levatura, tranne trovare qualche sconosciuto smarrito in un cassetto, negli States li paghi fior di quattrini. Mátyás, che canta pure bene quasi senza accento, ha sicuramente ascoltato Toots Thielemans assieme a Junior Wells, ma l’atmosfera spesso macchiata di chiaroscuri jazzati riporta alla mente Jean Jacques Milteau, che tra l’altro firma una breve dedica sul libretto. Come lui, Mátyás pensa prima alla musica che agl’assoli e non si pone problemi d’ortodossia stilistica. In conclusione, difficile far meglio agl’esordi, un disco di grande spessore e maturità che dà un sottile piacere a pigiare e ripigiare su play.

Luca Lupoli

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