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INTERVIEW


The Blind Boys of Alabama 

Intervista di Fabrizio Poggi

Foto di Angela Megassini


Assistere a un concerto dei Blind Boys of Alabama è un’esperienza emotiva a dir poco unica.

L’occasione ci viene offerta dal Monfortinjazz 2009, una delle manifestazioni musicali sicuramente più longeve e raffinate del panorama italiano, che ormai da anni si svolge nella splendida cornice dell’ Auditorium  Horszowski, un meraviglioso anfiteatro naturale racchiuso tra le mille viuzze di un affascinante borgo antico in provincia di Alba. Inoltre, qualità non marginale, l’evento si avvale di uno staff che eccelle per cordialità e capacità organizzative. Qualità che si sono efficacemente palesate nella possibilità di incontrare il grande Jimmy Carter, il più anziano e storico membro del gruppo sia prima, sia dopo la loro straordinaria esibizione.

Un concerto davvero indimenticabile che resterà a lungo nei nostri cuori. Jimmy Carter, settantasette anni, portati con il piglio di un ragazzino, ci ha accolto con immensa cortesia e ha risposto con dovizia di particolari a tutte le domande che avevamo preparato per lui. 

Come è cominciato il lungo viaggio dei Blind Boys of Alabama?

La nostra storia comincia più di sessant’anni fa a Birmingham in Alabama, o per essere più precisi in quello che allora era conosciuto come l’“Istituto per bambini di colore ciechi e sordi” di Talladega, Alabama. Lì, cinque bambini, tra i sette e i dodici anni, compreso il sottoscritto, arrivarono nel 1937 con poco più dei vestiti che avevano indosso. Eravamo nati poveri e neri nelle desolate campagne del sud e quindi il nostro futuro era tutt’altro che roseo. Quella scuola era come una prigione per noi. Li ci insegnavano a leggere il Braille ma ci facevano anche lavorare. Duramente e senza darci un soldo. Facevamo scope e impagliavamo sedie.  Eravamo molto tristi. Per questo un paio di anni dopo nel 1939 cominciammo a cantare, per scacciare la malinconia. Nell’istituto c’era un coro, ma noi preferivamo cantare con il nostro piccolo gruppo. Gli insegnanti erano tutti bianchi e ci insegnavano le “loro” canzoni; ma noi per fortuna riuscivamo ad ascoltare il gospel alla radio. Certo nessuno di noi a quell’epoca avrebbe pensato nemmeno lontanamente a quello che saremmo diventati. 

Chi furono i fondatori storici del gruppo?

Clarence Fountain, Johnny Fields, George Scott, Ollie Thomas e il sottoscritto naturalmente… Alcuni di loro non ci sono più, altri si sono ritirati per via dell’età e della salute malferma, altri ancora sono usciti e poi rientrati quasi subito. D’altronde il nostro gruppo musicale è come una famiglia da cui non si può stare lontani e che deve continuare ad andare avanti nella buona e nella cattiva sorte.

Quando avete cominciato a fare concerti?

All’inizio del 1944, quattro di noi fuggirono dall’istituto e con l’aiuto di due cantanti “vedenti” cominciarono a girare il sud. Io che ero il più giovane di loro, li raggiunsi solo qualche mese più tardi, tra le proteste di mia madre che era molto preoccupata per la mia incolumità. Ci accorgemmo ben presto che le nostri voci potevano davvero offrirci la possibilità di una vita migliore.

Come è nato il nome del gruppo?

All’inizio ci chiamavamo gli Happy Land Jubilee Singers. In quegli anni c’era un gruppo di ragazzi ciechi del Mississippi che come noi cantavano gospel. Si chiamavano i Jackson Harmonizers. Un dj del New Jersey invitò entrambi i gruppi ad uno spettacolo che cominciò a pubblicizzare con lo slogan: “Venite ad assistere alla battaglia canora tra i blind boys of Mississippi e i blind boys of Alabama”. L’idea ci piacque, e cominciammo così a utilizzare quel nome. 

Per la cronaca: chi vinse la “battaglia”?

(ride) I blind boys of Mississippi. In realtà tra i due gruppi non ci fu mai competizione e spesso all’occorrenza le due band si scambiavano i componenti. Io stesso ho cantato più volte con loro e alcuni dei loro componenti si sono esibiti con noi.

In che anno è iniziata la vostra carriera discografica?

Nel 1948 e da allora abbiamo inciso più di cinquanta dischi. 

Nella seconda metà degli anni ottanta siete definitivamente esplosi, e la vostra popolarità è andata alle stelle. Prima il successo a Broadway e poi avete vinto qualcosa come 5 Grammy Awards; dimostrando di saper unire sapientemente tradizione e spettacolo;  abbracciando sonorità che vanno dal blues al rock e al jazz; avete collaborato con tanti grandi della musica contemporanea: Peter Gabriel, Tom Petty, John Fogerty, Taj Mahal, Aaron Neville, Randy Travis, Charlie Musselwhite, Dr. John, Susan Tedeschi, John Hammond, Duke Robillard, Mavis Staples, Solomon Burke Bonnie Raitt; e persino Prince è salito sul palco a jammare con voi. Per non parlare poi della prestigiosa collaborazione con Ben Harper e Tom Waits che non solo ha dato vita a concerti ed incisioni, ma vi ha anche permesso di entrare  nella colonna sonora di telefilm di culto come “Lost” e “The Wire”.

Allora Mr. Carter come ci si sente a essere considerati una leggenda del gospel?

Ci si sente bene, molto bene. Noi cerchiamo sempre di dare il meglio con onestà e sincerità cantando con tutta l’anima le nostre lodi al Signore finchè Lui ce lo permetterà. Dio non ci ha dato la vista ma ci ha donato la capacità di cantare. Lui vede per noi. I suoi occhi sono i nostri occhi e gli siamo grati per aver vegliato su di noi per tutti questi anni.

Quanti concerti fate all’anno?

Dai 150 ai 200, ma anche di più.

Mr. Carter si ricorda ancora del suo primo concerto?

Certamente, come se fosse ieri. Era il 10 giugno del 1944.

E la prima incisione?

“Sweet honey in the rock”. Era il 1948 o giù di lì. Ma poi arrivarono quasi subito altri due successi “I can see everybody’s mother but mine” e “Oh Lord stand by me”. In quegli anni incidevamo in continuazione ed eravamo sempre in giro a fare concerti nelle chiese afroamericane, nei centri aggregativi delle comunità nere, nelle scuole e per le radio. Eravamo giovani, ciechi e di colore e quindi molti si prendevano gioco di noi e i soldi che ci arrivavano dai dischi e dai concerti erano veramente pochi.  

Che cosa è cambiato nel vostro modo di fare  musica da quando avete iniziato?

Oh, non è cambiato molto, se non che quando abbiamo iniziato non avevamo nemmeno una band. Tutto ciò che avevamo era una chitarra che accompagnava le nostre voci. Oggi invece abbiamo una vera band alle nostre spalle. D’altronde bisogna stare al passo coi tempi… (ride).

Chi sono gli attuali componenti dei Blind Boys Of Alabama:

Oltre al sottoscritto (unico membro della band originale degli anni quaranta ancora in attività ndr), ci sono Billy Bowers e Ben Moore alle voci (quest’ultimo molto conosciuto anche nel mondo della soul music come Bobby Purify ndr), Eric “Ricky” McKinnie  alla batteria e voce, Willie “Chuck” Shivers al basso (che è anche il loro road manager ndr), Peter Levin al piano e all’organo e Joey Williams alla chitarra e  al canto.

Quando si è accorto di saper cantare?

Oh, ero molto piccolo. Mi accorsi che Dio mi aveva dato questo dono quando avevo cinque anni. Cantavo sempre in casa così quando andai all’istituto per ciechi, non feci altro che continuare a fare ciò che facevo ogni giorno. E il resto lo sapete…

C’erano altri in famiglia che cantavano?

Mia madre cantava in chiesa e a mio padre piaceva fischiare. Era davvero bravo. Entrambi amavano la musica religiosa.

Cosa ci dice a proposito di “Down in New Orleans” il vostro lavoro più recente?

L’idea è partita dal nostro produttore Chris Goldsmith e dal nostro manager Charles Driebe. Tutti noi eravamo al corrente di come l’uragano Katrina avesse devastato quella città. Naturalmente non potevamo aiutare quella gente a ricostruire le loro case perchè essendo ciechi non potevamo certo usare chiodi e martello. Potevamo però portare coraggio e speranza attraverso la nostra musica. Così siamo andati là e ci siamo circondati degli ottimi musicisti che vivono in quella città. Alcuni davvero leggendari come gli Hot Eight, Allen Toussaint e la Preservation Hall Jazz Band. Abbiamo fatto una serie di concerti e poi siamo entrati in studio. Tutto è avvenuto in maniera molto naturale e lo spirito della musica di New Orleans percorre tutto il disco.

A me è piaciuto particolarmente “Free at last” il brano che apre il disco”. Ci può dire qualcosa in più a proposito di questa bellissima composizione?

“Free at last” è un tipico esempio di come abbiamo riarrangiato i brani del disco in perfetto stile New Orleans. In questo caso non abbiamo fatto altro che prendere un vecchio spiritual e cantarlo sopra a una ritmica “second line”. Il resto lo fa il feeling particolare che c’è nella musica di New Orleans. Ma la cosa più importante per me a proposito di questo brano sono le sue parole. Le stesse che Martin Luther King pronunciò alla fine del suo famoso discorso “I have a dream”. Queste le parole: Free at last, free at last, thank God Almighty, I’m free at last !– Finalmente libero, finalmente libero, grazie Dio Onnipotente, finalmente sono libero! 

Il disco poi é dedicato a una delle più famose figlie di New Orleans: Mahalia Jackson, una delle più grandi cantanti di gospel di sempre con cui abbiamo avuto l’onore di esibirci. In “Down in New Orleans” ci sono due sue canzoni “If I can help somebody” che ha ispirato tutto  il progetto e “How I got over”.

Nel disco c’è una canzone che non è propriamente gospel. Si tratta di “Make a better world” uscita dalla penna di Earl King, grande bluesman neworlensiano. Perche l’avete scelta?

Ci piaceva il messaggio di quella canzone. C’è davvero bisogno di trasformare questo mondo in un mondo migliore. C’è gente che pensa che un gruppo gospel debba cantare solo canzoni gospel. Noi non la pensiamo in quel modo. Per noi è importante che in una canzone ci sia un messaggio positivo. Questo non vuol dire che domani inizieremo a cantare canzoni pop o d’amore; ce l’hanno chiesto tantissime volte in questi anni ma noi abbiamo sempre rifiutato. Io ero presente nello studio quando anni fa Sam Cooke lasciò i Soul Stirrers per intraprendere una carriera nel mondo della musica pop. Ci sono cantanti gospel che pensano che il blues sia “la musica del diavolo”. Io non la penso così. Io sono un grande fan di Blind Boy Fuller, Sonny Boy Williamson, Lightnin’ Hopkins e B.B. King. Ma mi piace anche il rhythm and blues e personaggi come Fats Domino. Amo anche la musica country. In “Down in New Orleans c’è “ Across the bridge”, una canzone che è un omaggio a Jim Reeves di Carthage, Texas; che per me resta il più grande cantante di country di tutti i tempi. Come vorrei averlo conosciuto. E morto nel 1964 e in quegli anni era molto difficile per artisti bianchi e neri incontrarsi, magari sullo stesso palco. Oggi per fortuna le cose sono cambiate. Prova ne suono due brani che abbiamo incluso nell’ultimo lavoro “I’ll fly away” e “Uncloudy day”, due brani che appartengono in egual misura sia alla tradizione nera che a quella bianca. Perché la speranza non ha colore.

Mentre saluto Jimmy Carter mi viene in mente una cosa che Ray Charles, che come i Blind Boys non vedeva, ma che come loro cantava come un angelo, disse  una volta, e cioè che non serve la vista per avere una grande anima. E Brother Ray aveva ragione, come sempre, e questa lunga chiacchierata con Jimmy Carter ne è la prova più autentica e sincera.                                                                                                                               

(Fabrizio Poggi e Angela Megassini desiderano ringraziare sentitamente per la disponibilità e la collaborazione tutto lo staff del festival e in particolare i signori Adolfo Ivaldi e Renato Moscone, l’agenzia stampa Cocchi e Ballaira, Marco e Vincenzo della Ponderosa Music, e il management statunitense dei Blind Boys of Alabama e in particolare Chuck Shivers, Charles Driebe e Sue Schrader).


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