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Special

Joe Strummer 1952 – 2002: un ricordo a dieci anni dalla morte del grande musicista inglese

22 dicembre 2012 by Matteo Vannacci in Special

“The Minstrel fell but the foeman’s chain / Could not bring his proud soul under / The harp he loved never spoke again / For he tore its chords asunder / And said: No chains shall sully thee / Thou soul of love and bravery / Thy songs were made for the pure and free / They shall never sound in slavery” – Minstrel Boy, ballata tradizionale irlandese.

Nonostante la minaccia del terrorismo globale, l’incertezza del nuovo millennio e i venti di guerra, che nel corso di pochi mesi avrebbero portato al pantano iracheno, mentre l’Afghanistan si stava già trasformando in una trappola per topi, la vigilia del natale 2002 non sarebbe stata troppo diversa dalle altre. Luci e colori illuminavano le città di tutto il mondo occidentale e tra queste rientrava sicuramente l’amena località inglese di Broomfield, “il campo di ginestre”, i fiori che in primavera colorano le colline vicine e esaltano la spettacolare vista del canale di Bristol. In una delle case di campagna disperse attorno a Broomfield, il 22 dicembre, il cuore di Joe Strummer si fermò, e il natale, quell’anno, fu veramente diverso.

Il legame più forte tra la musica e la vita sta nell’unione indissolubile tra l’arte e l’artista, del quale la prima riflette crescita, ansie, paranoie, intuizioni, maturità e riflessioni. E la musica, come la vita, può essere ingiusta: se l’ingiustizia più grande è fermare la musica, la morte è l’ingiustizia suprema, inappellabile, e nel caso di Joe Strummer, incomprensibile. Pensi al punk e immediatamente pensi al suo lato oscuro: all’eroina, alle risse con i buttafuori, a conoscenze pericolose, a fan spostati e potenzialmente pericolosi. Non pensi a un cuore che improvvisamente, dopo cinquanta anni di onorato servizio sul palco, decide di scioperare, il primo giorno di inverno, due giorni prima di natale, a Broomfield, Somerset, campagna inglese.

1952. John Graham Mellor nasce ad Ankara da genitori inglesi. Le prime immagini della sua infanzia sono i viaggi intercontinentali con il padre, diplomatico del Foreign Office. Queste stesse immagini si rifletteranno in musica anni dopo: nella ricerca di uno stile globale, complesso e poliedrico. A soli diciotto anni suo fratello David si suicida, divorato da un malessere che l’aveva portato a unirsi al neofascista Fronte Nazionale. L’animo inquieto, sensibile, artistico di John viene salvato dall’ascolto di Woody Guthrie. Mellor sviluppa una forte sensibilità sociale, la tragica fine del fratello e l’ascolto di Guthrie lo portano su idee antifasciste; a venti anni è a Londra, vive in uno squat, vegetariano, suona blues e folk.

Nel 1975 John Graham Mellor diventa, per sempre, Joe Strummer. L’anno successivo i Sex Pistols iniziano a infiammare Londra, la pace e l’amore hippie sono finite per sempre, roba da sciroccati, lunga vita al punk. Nel 1976 nascono i Clash, Strummer scrive canzoni e canta; altri due fenomeni, Mick Jones e Paul Simonon, aggiungono talento e idee. Alla batteria, dopo alcuni cambiamenti, finisce Topper Headon.

 
Il resto è storia, non del punk, non del rock, storia della Musica. A differenza dei Sex Pistols e dei Ramones, i Clash uniscono l’immediatezza e il furore a una capacità tecnica sopra la media. Con i Clash il punk esce dagli sporchi club londinesi e diventa musica di massa, i Clash, ridefinendo il punk, salvano il rock. Al nichilismo sfrontato dei Sex Pistols, Strummer e compagni affiancano una ricostruzione su nuove basi: reggae, folk, blues, funk, rockabilly, dub, jazz, rap, world music, persino il gospel ed echi di musica classica riecheggiano nelle loro canzoni. Uno stile incredibile, pazzesco, affascinante e in sostanza irripetibile. A circa quindici anni di distanza dai Beatles, i Clash reinventano la musica inglese e le danno la spinta propulsiva verso il nuovo millennio: metà della musica degli anni Ottanta e buona parte di quella degli ultimi cinque anni gli sono infinitamente debitori.

Sei album, cinque capolavori, una decina di outtake micidiali e un disco di commiato a propulsione ormai esaurita. Nel 1979 “London Calling” è l’album risolutivo del decennio, Maggie Thatcher è appena stata eletta Primo Ministro e quell’inconfondibile giro di basso riscalda il Regno Unito mentre Joe Strummer ulula, sardonico, sull’orlo di una catastrofe nucleare. Nel 1980, in risposta all’album doppio “The River” di Bruce Springsteen, i Clash fanno uscire “Sandinista!”, trentasei canzoni per tre dischi, un’opera infinita di oltre due ore, un capolavoro di coraggio, varietà e sperimentazione che andrebbe studiato a scuola come una Divina Commedia della musica contemporanea. La voce di Strummer, profonda, roca e inconfondibile con il suo accento borghese da figlio di diplomatico, è la base fondante di questi capolavori. Due anni dopo esce una nuova pietra miliare, il più commerciale “Combat Rock” – Rock the Casbah, insomma, la conosce chiunque – e il ciclo dei Clash idealmente termina con un’apoteosi di successo e pubblico, in Gran Bretagna, negli States, nel mondo.

Non termina però il ciclo di Strummer, inquieto e lontano dagli stereotipi della rockstar. Strummer non si chiude in una villa con piscina a Beverly Hills, non rilascia ogni due anni un “best of” per arrotondare il conto in banca. Sperimenta il cinema: il suo volto triste e la sua acconciatura anni ’50 lo rendono il volto perfetto per film stralunati e fuori dal tempo come “Mistery Train” di Jim Jarmusch o “Straight to Hell” di Alex Cox. Riprende a viaggiare per il mondo, si incuriosisce per i nuovi fenomeni musicali, quelli provenienti dal basso, come il punk. Fa il DJ in radio, ritorna al primo amore per il folk e suona con i Pogues ovunque, dagli stadi ai peggiori pub irlandesi.

Nel 1999 Joe Strummer torna in scena, fonda i Mescaleros e lascia al mondo altri tre album e alcune canzoni splendide. Collabora con Johnny Cash, vira nuovamente sul reggae e il 15 novembre 2002, fedele a sé stesso, suona gratuitamente per i pompieri londinesi in sciopero. All’inizio di dicembre prende una chitarra e si esibisce in un piccolo pub nel Somerset, poi torna a casa per il natale.

Ora, prima di morire Strummer rilascia tre canzoni struggenti, malinconiche e commoventi. La prima è “Mondo Bongo”, uno splendido pezzo romantico dagli echi caraibici; la seconda è la rivisitazione di “Minstrel Boy”, una ballata patriottica irlandese dedicata a un soldato scomparso in battaglia. Il brano viene inserito in chiusura del film di Ridley Scott “Black Hawk Down”, e in una struggente versione di quindici minuti, su disco. La terza, che uscirà di fatto postuma, è una cover, sublime, di “Redemption Song”. La voce di Strummer, nel 2002, era più bella che mai. 

Di fronte a queste canzoni, se si crede all’esistenza dell’anima, a un qualcosa di più profondo e intellegibile, si direbbe che Joe Strummer, questo artista punk impegnato, questa leggenda della musica, stesse toccando inconsciamente la morte a inizio millennio, perché soltanto una persona che avesse avvertito la fine avrebbe potuto avere una simile coscienza della vita e della musica. Altrimenti rimane soltanto il rimpianto, rimpianto tremendo per i capolavori che avrebbero potuto essere e per la scomparsa prematura di un’artista che a cinquant’anni aveva trovato pace e maturità.

Matteo Vannacci

Compilation: Minstrel Boy; White Man in Hammersmith Palais; Police and Thieves; Julie’s in the Drug Squad; London Calling; Spanish Bombs; The Magnificent Seven; Rebel Waltz; The Sound of Sinners; The Equaliser; Know Your Rights; Straight to Hell; Bankrobber; Mondo Bongo; Redemption Song.