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Recensioni

Robert Plant, Pistoia Blues Festival (PT, 11/07/2014) e Hydrogen Festival (PD, 14/07/2014)

16 luglio 2014 by Giulia Nuti in Concerti

Pistoia, Pistoia Blues Festival, 11/7/2014
Piazzola sul Brenta, Padova, Hydrogen Festival, 14/07/2014

Un’introduzione di Skin Tyson alla chitarra acustica, dai toni spagnoleggianti, segna l’avvio dell’esplosiva esibizione di Robert Plant nell’ambito del Pistoia Blues Festival.
Quello di Pistoia è un palco noto alla leggendaria voce dei Led Zeppelin, che si è esibita numerose volte in questo contesto e che torna oggi in compagnia dei suoi Sensational Space Shifters.
La piazza si scalda quando sul finire dell’introduzione arrivano, inequivocabili, le note di Babe, I’m gonna leave you. Non potrebbe esserci inizio migliore, più chiaro e perentorio per affermare l’autorevolezza che Plant tutt’oggi comunica.
Il concerto è la dimostrazione di come, a quarantacinque anni di distanza dalla pubblicazione del primo album dei Led Zeppelin, Plant non abbia bisogno di sedersi sui fasti dei successi planetari messi a segno.
Certo, per i Led Zeppelin in scaletta c’è tanto spazio, da Black Dog a una toccante Going to California, fino ai brani che segneranno – in crescendo – la chiusura di concerto.

Non c’è mai, però, la sensazione di un tentativo di accontentare i fan regalando loro ciò che più banalmente si attendono. Si fugge con attenzione da quell’effetto “best of” su cui troppi, spesso, indugiano.
C’è voglia di sperimentare, giocare sul sound, costruire qualcosa che attualizzi ogni brano della lunga carriera di Plant al presente.
Sembra scontato, ma è un gesto di coraggio avere in tasca canzoni che tutti conoscono – il boato corale della piazza ne è la dimostrazione, ogni volta che Plant intona qualcosa tratto dalla discografia del leggendario quartetto inglese – e presentarle in modo diverso e rivisitato.
Il riff inconfondibile di Black Dog si stempera così in una versione meno muscolare del brano, ma bella e riuscita.
Whole Lotta Love, ufficiale chiusura della scaletta prima dei bis, comincia con un’introduzione blues che lascia la piazza guardinga, in attesa di accertarsi che il brano sia veramente quello. Appena il ritmo cresce e il pubblico si scatena, Plant già prepara l’efficace medley tra Whole Lotta Love e Who do you love.

Su tutto regna il gusto raffinato per la contaminazione.  I Sensational Space Shifters (non poteva esserci nome più corretto per il loro avere qualcosa di sensazionale e cangiante al tempo stesso) incorniciano il sound di Plant all’insegna di sfumature etniche e mediterranee, tra banjo, bendir e la partecipazione di Juldeh Camara al violino africano a una sola corda (il cosiddetto ritti).
Quest’ultimo improvvisa con virtuosismo, maestria e larghi spazi su numerosi pezzi, all’insegna di un medley tra blues classico, suoni d’Africa, rimandi al blues del Mali. Regala anche un discorso rivolto al pubblico nella sua lingua, mentre il groove alle sue spalle incalza, in un misto tra una sciamanica predica e un rap.

Rimanendo in tema di blues, influenza assai cara a Plant fin dalle origini, non mancano in scaletta insert come Spoonful.  Justin Adams assume il ruolo da vero protagonista con il suo enfatico assolo alla chitarra elettrica su Fixin’ to die, brano di Bukka White che viene interpretato in una versione che ha ben poco a che vedere con quella immortalata da Plant nell’album Dreamland.
Non mancano gli assaggi dall’album in uscita a settembre Lullaby and… The Ceaseless Roar, come Little Maggie, Pocketful of Golden (primo bis della serata) e Rainbow, segnata dal gusto per gli incastri ritmici e da buona parte della band, Plant compreso, che prende in mano il tamburo. C’è anche una propensione alla contaminazione con l’elettronica, portata avanti in modo mai troppo sfacciato. Alle tastiere c’è invece il tocco di John Baggot (che invece delle influenze afro, porta nel sound ciò che personalmente gli deriva dalla militanza con Portishead e Massive Attack).
La sezione ritmica è invece affidata a Dave Smith e Billy Fuller.
Il gran finale è riservato a Rock and roll, bis conclusivo della serata. Un definitivo sguardo al passato che scalda immancabilmente il cuore del pubblico, nella cornice di un concerto che lascia il gusto di qualcosa saldamente radicato al presente e che trova proprio in quest’aspetto la sua grande forza.

 Qualche variazione per la serata di Piazzola Sul Brenta (Padova) il 14 luglio all’Hydrogen Festival. L’apertura è questa volta affidata ad un avvolgente (e quasi irriconoscibile) No Quarter, mentre Babe I’m gonna leave you viene spostata avanti in scaletta (si rinuncia all’effetto acustico a sorpresa iniziale, ma la band quando arriva ad interpretarla ha già i motori caldissimi). Gli elementi che cambiano si bilanciano l’un con l’altro. Non c’è Pocketful of Golden ma c’è un finale più zeppeliniano con la versione blues di Nobody’s Fault But Mine seguita da una Rock and Roll che si inserisce a gamba tesa, in un medley con Communication Breakdown.
Ottima la performance di tutti i musicisti sul palco. Adams si lancia ancora di più nel solo rockabilly di Fixin’ To Die. Suggestiva la cornice di Villa Contarini, invariati l’attitudine e il carisma di Plant e tutti quegli aspetti che avevano reso Pistoia un ottimo concerto.

 Giulia Nuti

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