il popolodelblues

Recensioni

Jonathan Wilson, Cavea Teatro dell’Opera, Firenze, 1 agosto 2014

7 agosto 2014 by Giulia Nuti in Concerti, Recensioni

www.songsofjonathanwilson.com

Il commento

Jonathan Wilson dal vivo alla Cavea del Nuovo Teatro dell’Opera

Firenze, 1/08/2014

Foto (c) Pressphoto Firenze 

Lo spirito degli anni Settanta è vivo e vegeto e per chi ha voglia di sentirlo dal vivo su un palco la parola d’ordine è Jonathan Wilson. L’album Fanfare (Bella Union) ha reso noto il musicista americano presso il pubblico internazionale più di quanto non avesse fatto il precedente Gentle Spirit. Eppure l’album, per quanto bello, restava in certi passaggi sospeso, come se al quadro complessivo mancasse qualcosa. Quel qualcosa, quel pezzo mancante del puzzle, si trova magicamente nel momento in cui si vede Wilson dal vivo su un palco. Bastano pochi minuti per rendersi conto di come la musica ascoltata sul disco sia genuina, autentica, di quanto quel linguaggio musicale gli appartenga profondamente.

Ad accompagnare Wilson c’è un’ ottima band, con l’organista Jason Borger, Omar Velasco alla chitarra (che apre il concerto) , Richard Gowen e Dan Horne alla sezione ritmica. Molti sono i brani in scaletta tratti da Fanfare (Lovestrong in apertura, il funky di Fazon, quella piccola sinfonia rock che è Dear Friend, la bella Moses Pain, Illumination, Love to Love in chiusura). E’ un concerto con grandi parentesi strumentali e gusto per l’improvvisazione, senso delle dinamiche, fantasia, grande abilità tecnica (non ultima quella dello stesso Wilson, ottimo chitarrista).
C’è l’eco della musica west coast (la California è la terra di adozione di Wilson), i Grateful Dead, tanto degli Allman Brothers (in particolar modo sulla convincente e lunga cover di Angel dei Fleetwood Mac), CSNY, le ballate di Young e Dylan. A condire il tutto, si aggiunge l’influenza del meglio del progressive inglese, dai Genesis ai Pink Floyd.
E’ proprio ascoltando Wilson dal vivo che ci si rende conto di quanto la lezione del prog inglese sia riletta con gli occhi e il bagaglio culturale di un musicista americano, aspetto che rende la sua proposta veramente efficace. La cornice della Cavea del Nuovo Teatro dell’Opera, con la sua ottima acustica e i suoi bei giochi di luce, aggiunge il tocco finale per completare il quadro di un bellissimo concerto.

Giulia Nuti

Intervista a Jonathan Wilson 

C’è una particolarità che colpisce subito chi ascolta Fanfare: la lunghezza dei primi due brani che durano più di sette minuti. Non è usuale per un disco inciso oggi…

«Questo deriva dal mio passato e dalla musica che facevo con il mio primo gruppo (i Muscadine, ndr). Non c’erano solo canzoni, ma anche improvvisazioni che duravano tanto. A volte ci divertivamo a fare brani jazzati che potevano arrivare anche a trenta minuti. Per questo mi sono lanciato nel costruire pezzi lunghi come Fanfare e Dear Friend che aprono il disco».

La stessa e iniziale Fanfare è a suo modo curiosa. I primi tre minuti sono strumentali, un altro elemento non abituale per un album pensato per catturare l’attenzione di chi ascolta…

«La risposta che le do completa il discorso affrontato in precedenza. Io amo costruire i brani con tanti elementi, quindi è normale per me suddividerli in sezioni e pensare a soluzioni diverse. In questo caso è come se avessi pensato a una Ouverture di stile classico».

Veniamo ai grandi nomi presenti nel suo disco, in che modo ci è riuscito?

«Intanto è stata una cosa che mi ha letteralmente entusiasmato. Sono cresciuto infatti con le canzoni di CSN&Y che è il mio gruppo preferito. Graham Nash ha scoperto e interpretato un brano del mio disco Gentle Spirit. Poi ha coinvolto David Crosby e Jackson Browne che erano molto contenti di partecipare alla lavorazione di Fanfare. Si è rivelato tutto più facile del previsto».

Lei nel disco suona moltissimi strumenti che poi sovrappone in sede di incisione. Come mai questa scelta?

«Premetto che la band che mi accompagna in tour è di ottimo livelo ed è la stessa che mi ha accompagnato nei concerti di Gentle Spirit. Però quando sono a casa e nello studio di registrazione ho bisogno di stare da solo, concentrandomi sull’interpretazione oltre che sugli aspetti creativi».

Tra i ringraziamenti nel disco c’è anche un musicista inglese di lungo corso come Roy Harper, il cui stile acustico è riconoscibile in alcuni suoi pezzi…

«E’ vero, lo considero un genio a cui devo tantissimo dal punto di vista musicale, oltre a essere un amico».

Michele Manzotti

Tagged , , , ,

Related Posts